Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in tennis di periferia on 24 Marzo 2016 10 min read
C’è da giocare il primo turno del tabellone finale della Coppa Gabbiani di quarta categoria, di domenica mattina, in trasferta. La settimana scorsa, infatti, abbiamo giocato l’ultima partita del girone, vinta due a zero, che ci ha fatto qualificare per secondi al tabellone finale. Io ho esordito da singolarista, giocando contro un avversario che ha giocato i primi game con gli occhiali da sole. Non essendo lui né Brad Gilbert né Janko Tipsarevic, ha beccato un 6-2 6-0 nonostante io non giocassi da dieci giorni, essendo atterrato a Roma dopo una vacanza in un altro continente il giorno prima, dopo tre voli e 16 ore sull’aereo. Potenza dell’astinenza, i tennisti sanno.
Sveglia alle 7, quindi, tre ore prima di scendere in campo come vuole la regola, aiutato dal fatto che il figlio non ha ancora smaltito il jet lag dopo una settimana e si alza in orario di apertura edicola/fornaio. Colazione da campione, saluti alla famiglia che si prepara per la solita giornata in piscina e via verso l’Eur. Conosco il circolo dove ho giocato già anni fa, sta sul Tevere ma in zona Portuense, non quella del fiume nobile come i circoli di Roma Nord. Edoardo, mio compagno e giocatore più forte della squadra, non può venire. Scherzando, il giorno prima gli ho detto: «Certo che se i tuoi amici del Canottieri a Roma Nord venissero a sapere che sei andato a giocare sul Tevere all’Eur ti caccerebbero». Ha riso, trovandosi pienamente d’accordo. Infatti questo circolo, almeno per come lo ricordo, è tutto meno che bello ed accogliente, ora che è primavera, figurarsi in inverno.
Ma prima di c’è da attraversare Roma, tutta verde su Google Maps a quest’ora. Il cielo è terso e la tangenziale libera, taglio la città rapidamente, ascoltando il nuovo album rock seventies degli Spiritual Beggars, guidando senza occhiali da sole perché, nonostante la sveglia presto, gli occhi hanno ancora la forma di una fessura. Arrivo all’Eur, una città nella città per i romani di Roma Nord, tanto che hanno una loro cupola, quella per il santo minore, Paolo, e un loro Colosseo, quadrato invece che ellittico. Per le strade dell’Eur sono tante le biciclette che attraversano la strada, tanti i runner con gli iPhone illuminati e attaccati sul braccio, e tanti i cani al guinzaglio dei padroni dopo la nottata passata a trattenere i loro bisogni. Quando manca poco all’arrivo cambio musica e metto gli Anthrax, giusto per fare un po’ di headbanging propedeutico al riscaldamento dei muscoli del collo.
Riesco a trovare la strada del circolo, un vicolo, e parcheggio in un prato prima di scendere la scalinata. È tutto come lo avevo lasciato. Campi costruiti su più livelli; dal più alto, altezza strada, ai più bassi, altezza Tevere. Spogliatoi ricavati dentro baracche prefabbricate poggiate sul terreno, tanta boscaglia, vegetazione, animaletti, e reti metalliche arrugginite. Giusto le siepi dei primi campi sono curate bene. Insomma: è tutto un po’ “sgarrupato”, per usare un aggettivo romano che rende benissimo l’idea di un circolo un po’ trasandato – tanto che la quota mensile costa 30 euro, meno della metà di quanto pago io al mio circolo.
Facciamo le presentazioni di rito, stringiamo la mano agli avversari e ci andiamo a cambiare. Negli spogliatoi non c’è riscaldamento, tanto che c’è un cartello, scritto dai soci, presumiamo, che dice: “Chiudere la porta, o il riscaldamento?”. Commentiamo dicendo che d’inverno, fra freddo e Tevere a 10 metri, non dev’essere proprio il massimo giocare a tennis qui. Concordiamo, ancor prima di scendere in campo, che in caso di 2 a 0 per noi non faremo il doppio: le nostre famiglie, le nostri mogli arrabbiate con il tennis dacché esiste, non capirebbero. C’è fiducia diffusa sulla nostra vittoria, evidentemente.
Scendo scalinate su scalinate, arrivando sul campo numero 9, adiacente al 10, gli ultimi due in ordine di importanza e i primi in ordine di schifezza. Il manto di gara è un casino. Ha il fondo duro, con poca terra sopra, e le righe sono rialzate, tanto che la palla è ingiocabile nelle zone che delimitano il campo. La rete è vecchiotta, ha qualche buco e io penso tanto a Larry Ellison e a Indian Wells, realizzando poi che sono un tennista di periferia, un amatore fomentato che merita questi palcoscenici. Ma insomma, forse qualcosa di meglio.
Guardo in faccia il mio avversario, un 4.2, e non mi sembra di vedere un tennista. Iniziamo a palleggiare, lui tira molto piano, taglia la palla in maniera strana sia di diritto che di rovescio, facendola rimbalzare molto corta tanto che io termino il palleggio con i piedi sulla riga di fondocampo. Non sa dare effetto alla palla quando batte, tanto che colpisce di piatto per lasciare comunque la sua palla rimbalzare poco, in maniera tale che io devo sempre colpire impattando sotto il livello della rete.
Poco male. Inizio in maniera blanda, perché so che non posso perdere con un avversario del genere. Dopo qualche minuto sono 3 a 0, poi 4 a 1 e infine chiudo 6-1 in un quarto d’ora. Risposte vincenti sul suo servizio, diverse chiusure angolate con il diritto, un paio di volée smorzate niente male. È tutto facile mentre mi godo i venti gradi di Roma, sbirciando il match di Maurizio sul campo adiacente che mi sembra combattuto e interessante.
Anche il secondo set prosegue su questa via: break sùbito e 2 a 0 per me. Poi perdo un paio di game di fila, e andiamo 2 a 2. Abbasso il livello di concentrazione e mi accorgo di essere andato fuori palla perché l’avversario gioca praticamente solo in backspin e io mi trovo a colpire palle completamente senza peso. Normalmente, questo non sarebbe un problema. È sulle palle tagliate, quelle basse, che si vede la tecnica di gioco necessaria a tirarle su e, se sei capace, a spingerle, e fortunatamente a me la tecnica non fa difetto. Non è raro che il mio miglior avversario d’allenamento, Edoardo, quando tiro su queste palle tagliate, specie con il rovescio, si lasci andare a frasi plateali tipo «aò a questo il back non je fa un cazzo».
Il punto è che io sono nel momento peggiore della stagione, dal punto di vista tennistico. Sono andato in vacanza per dieci giorni e, da quando sono tornato, non mi sono mai allenato in maniera decente. Ho fatto la partita di torneo nel turno precedente della Gabbiani, vinta in maniera facile anche perché l’avversario mi ha fatto colpire con regolarità e poi, passata una settimana, ho giocato un’ora con un maestro del circolo, un seconda categoria e praticamente, vuoi le palle ingiocabili che rispondono al nome di Head ATP (dei sassi ricoperti di feltro, buone dopo mezz’ora circa di gioco), vuoi la mia disabitudine a giocare a quelle velocità, sono in campo con quella sensazione di avere un assetto da corsa testato a Vallelunga ma su strade di campagna senza asfalto.
Non riesco praticamente più a colpire di diritto incrociato, chiudendo rapidamente il movimento con la testa della racchetta, anche perché le 3 Head ATP con cui giochiamo (rieccole!) erano già consumate all’inizio e ora, dopo mezz’ora di gioco, non hanno più pelo per il topspin. Commetto errori marchiani e d’improvviso non mi va più di stare in campo, perché non mi sto divertendo. Bisogna vincere però, e l’avversario è troppo scarso per vincere, anche se lui comincia a crederci e, quindi, gioca meglio. Torno avanti nel punteggio, arrivando a condurre 4 a 3 e servizio. Ma perdo nuovamente il vantaggio, giocando un game dove tiro fuori dei diritti di metri.
Mi ritrovo sul 4 a 4 contro un avversario più scarso di me, e di parecchio. Non urlo, non lancio racchette, non faccio monologhi plateali alla Becker, preferendo rivolgermi qualche parola sussurrata piena di sarcasmo. Mi dico una sola frase: «Cla’, rimettila sul piano del tennis, sei cento volte più forte». Faccio 8 punti, concedendogliene uno, e chiudo 6-4 una partita brutta e noiosa. «Fai un altro sport», mi dice quando mi stringe la mano. «Ma che dici, è tutta impressione», gli rispondo.
Mi siedo su questa sedia di plastica che sarà su questo campo da almeno dieci anni, consumata dalle intemperie come è. Guardo il match di fronte a me che è combattuto dopo un primo set vinto agevolmente dalla nostra squadra. Maurizio deve vincere, perché nessuno di noi vuole fare il doppio. Neanche Marco, il nostro terzo giocatore, vuole farlo: si è già acchitato due partite pomeridiane al nostro circolo, sui campi buoni.
Esco dal campo e vado a sedermi vicino a lui. Guardo Maurizio e il suo avversario lottare sul 5 pari del secondo set, finché lui, dopo aver strappato nuovamente il servizio al suo avversario, riesce a tenere il suo, complici un paio di diritti sparati a caso. Finisce la partita, 2 a 0 per noi; arriva il responsabile del circolo e ci fa: «Nella fase finale della coppa sul 2 a 0 non c’è bisogno di fare il doppio, quindi…». «Guarda che nessuno di noi vuole farlo eh», gli dico. Lui sorride. Si affaccia sotto il pallone che copre i due campi coperti a disposizione e urla ai soci: «Forza, ché si sono liberati i campi 9 e 10, dai».
Doccia rapida con l’acqua che sa di condotta, su queste panchine traballanti tutte di metallo che inglobano la seduta e l’attaccapanni, come quelle degli spogliatoi dei campi di provincia di quando giocavo nei giovanissimi a calcio, fine anni ‘80. Sento l’avversario di Maurizio che dice al suo compagno, quello battuto da me: «Be’ era bravo il tuo da quel poco che ho visto, giocava bene, poi al secondo un po’ je l’hai intortata». Raccolgo la roba, saluto alla buona compagni e avversari non prima di aver sbirciato un match di coppa di terza categoria che si disputa sul campo 1, dove ho giocato la prima volta che ho messo piede in questo circolo, perdendo con molti rimpianti una partita contro un tennista molto più forte di quello battuto oggi.
Esco dai vicoli di questi palazzi a ridosso del Tevere cercando l’Highway romana, la Cristoforo Colombo. Nel frattempo Roma si è svegliata, c’è un po’ di traffico, accettabile, e ancora più biciclette e runner che si contendono i larghi marciapiedi delle vie che costeggiano il Tevere. Coppie di vecchietti attraversano la strada vestiti in maniera elegante, probabilmente di ritorno dalla messa. Mi fermo alle strisce per far passare un altro vecchietto, ha un vassoio in mano e sono folgorato: le pastarelle. Accosto e le compro pure io: è pur sempre una domenica a Roma.