Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in monografie on 3 Marzo 2016 18 min read
«Era davvero perfetto. Era Borg». L’epitaffio è di Ilie Nastase. Quando Björn Borg si ritirò dal tennis non si trattò di un fulmine a ciel sereno. Lo svedese aveva già smesso di giocare da un anno e mezzo, dopo la finale dello US Open 1981.
Il 13 settembre del 1981 a Flushing Meadows si affrontano Borg e McEnroe. Borg conduce 7 a 6 negli scontri diretti ed è il numero 1 del mondo. In carriera non ha mai vinto né l’Australian Open, né lo US Open. Ma, come molti tennisti, in Australia delle volte neanche andava, perché troppo lontana da raggiungere. Ma a vincere a New York ci teneva. Prima di quel 13 settembre Borg aveva raggiunto altre tre volte la finale dello US Open. La prima nel 1976, a Forest Hills su quella strana terra verde dove Connors lo battè 6-4 al quarto set, dopo che il terzo finì con un sanguinoso tiebreak vinto 11-9 da Jimbo.
Due anni dopo, 1978, gli US Open si trasferiscono a Flushing Meadows, cambiano la terra verde con il cemento, e di nuovo Jimmy Connors e Björn Borg arrivano in finale. Lo svedese è forse all’apice della carriera: ha vinto il Roland Garros lasciando cinque game in finale a Vilas, e Wimbledon, lasciandone sette proprio a Jimmy Connors. Adesso sembra che Djokovic domini, ma è difficile rendere conto di cosa fece Borg quella primavera del 1978. In 21 set a Parigi solo due volte un avversario fece più di tre game in un set e un solo avversario – sempre lo stesso: Roscoe Tanner – fece più di sei game.
A Wimbledon andò solo un po’ peggio, perse tre set, ma dagli ottavi in poi non ne perderà più. Arriva quindi a Flushing Meadows da favoritissimo, cede un set a Ramirez e un tiebreak a Gerulaitis. In finale però si fa male ad un pollice e Connors gli lascia solo otto game. Borg non farà cenno del problema.
Passano altri due anni e nel 1980 Borg arriva di nuovo in finale a New York: non è il Borg travolgente del 1978 ma ha pur vinto, come al solito, a Parigi e Wimbledon. A Flushing Meadows, dove nel frattempo si gioca al meglio dei cinque set anche nei primi tre turni, soffre quasi ad ogni turno. Nei quarti recupera da 2 set a 1 contro Tanner, in semifinale da sotto addirittura di due set contro Johan Kriek. Esattamente come nel 1978, l’avversario della finale è lo stesso che aveva superato a Wimbledon, John McEnroe, che ha battuto ai quarti Ivan Lendl e in semifinale, anche lui al quinto, Jimmy Connors.
I due giocano quella che è ricordata come la finale più bella allo US Open in oltre 130 edizioni. Borg perde al quinto set dopo che McEnroe si è fatto rimontare un vantaggio di due set dallo svedese. Ma lo statunitense vinse il titolo con un 6-4 nell’ultimo parziale e Borg disse che il suo avversario aveva meritato perché aveva giocato meglio. Molti giornali descrissero quel successo come “The making of McEnroe”, il giorno in cui si “fece” McEnroe.
La finale del 1981 andò diversamente. Borg vince il primo set per 6-4, ma poi McEnroe diventa inavvicinabile nei tre set successivi e lo svedese racimola la miseria di nove game. A sorpresa, Björn abbandona il campo senza neanche presenziare alla cerimonia di premiazione e saltando l’incontro con i giornalisti. «Quando ci siamo stretti la mano, lui era devastato», ricorda McEnroe nella sua biografia, “Serious”. Quel giorno rappresentò una svolta per entrambi: McEnroe si lanciò verso un futuro radioso, che culminerà qualche anno più tardi nel suo strepitoso 1984; Borg decise che era meglio lasciare al top, da numero 1. Gli scontri diretti fra i due si fermarono sul 7 pari.
Dopo quella partita di New York, quando il campo ancora era tutto verde, Borg si prese un lungo periodo di pausa. Nel 1982 tornò a giocare solo a Montecarlo dove batté prima lo spagnolo Fernando Luna, in due set, e poi Adriano Panatta al terzo set. Ma contro Yannick Noah, racimolò solo tre giochi. Durante l’anno giocò parecchie esibizioni e parecchi tornei ad inviti battendo gente come Lendl, McEnroe e Connors, come se si fosse tornati nell’epoca pre-Open, quando c’era un circuito parallelo dove giocavano tra loro sempre gli stessi. Incerto se rientrare o no, non lo aiutò la polemica con l’ITF, che pretese che Borg partecipasse alle qualificazioni per accedere al tabellone principale, per via dello scarso di numero di tornei cui lo svedese partecipava.
Borg tornò nel 1983, un anno identico al precedente. Giocò la sua ultima partita, nel secondo turno del torneo di Montecarlo, contro Henri Leconte, che lo sconfisse per 4-6 7-5 7-6. Il suo ultimo punto giocato fu un passante incrociato col suo rovescio bimane. Il suo marchio di fabbrica, quello con cui per sei lunghi anni aveva frustrato qualsiasi tentativo di qualsiasi attaccante. Ma quel passante, che lui non sbagliava mai, finì in corridoio. Disse basta e fu uno choc per tutti. Persino John McEnroe, l’eterno rivale, provò a convincere Borg a rimanere: in fondo è la qualità degli avversari a rendere grande un campione.
Bjorn Borg a Montecarlo nel 1983.
Borg era stato uno dei più grandi, aveva vinto ovunque e contro chiunque. Ma soprattutto, Björn Borg era stato un rivoluzionario. Il suo nome evoca agli esperti il top spin, come se non fosse esistito prima di lui ma in realtà non è proprio così: Borg, piuttosto, mostrò al mondo come usarlo, lo fece diventare regola. Giocare continuamente il top spin era una formula efficace e vincente contro un tennis ancora ridotto alle traiettorie lineari. Il dritto, Borg, lo giocava con un movimento che oggi è praticamente quello di Federer mentre il rovescio bimane, imitato da generazioni di ragazzini, era un po’ sgraziato nell’esecuzione. Il suo gioco di volo era efficace. A queste caratteristiche Borg univa una preparazione fisica e una capacità di concentrazione unica.
Borg ti insegna a giocare a tennis.
Si dice che i suoi battiti al minuto erano ampiamente sotto la media e che non sentisse per nulla la tensione. Mentre gli altri tennisti curavano l’eleganza dei gesti o le puntuali discese a rete – perché è così che si giocava a tennis – Borg presentò il conto della sua rivoluzione tutta resistenza da fondo campo, palleggi sfibranti, e millimetrici passanti in top spin che cominciarono a tenere i suoi avversari – e quindi il tennis – incollati alla riga di fondo. E dal fondo, vinceva lui. Si racconta che un giorno, per gioco, venne sfidato sul miglio dal tedesco Harald Schmid, campione europeo dei 400 hs e olimpionico della 4×400. Vinse Borg.
E poi quel rovescio a due mani: un’eresia. Certo, anche Connors lo giocava, ma il suo era lineare e, anzi, tagliato con un leggero backspin. I maestri dell’epoca dicevano che questo rovescio avrebbe causato problemi alla colonna vertebrale e sconsigliavano di non insegnarlo alle scuole tennis: oggi se uno gioca col rovescio a un mano è un hipster, un passatista.
Quella di Borg fu una rivoluzione, una delle prime rivoluzioni, perché giocare da dietro significava correre di più, e molti non erano pronti. Ivan Lendl, re della preparazione atletica, segnerà un altro passo in questa direzione. Furono i prodromi del tennis di oggi, ancora più muscolare e fisico, in cui le partite di uno Slam superano spesso le quattro ore e a malapena si giocano dieci volée.
Uno dei suoi avversari dell’epoca, Vitais Gerulaitis, raccontava di Borg: «Ogni volta che preparavo la partita avevo in testa 30 idee per vincere. Puntualmente, Borg riusciva ad annullare tutte queste 30 soluzioni». Gerulaitis perse sedici volte di fila contro Borg, ma non fu l’unico dei big ad avere un pessimo head-to-head contro di lui. Connors, per esempio, perse nove volte di fila contro lo svedese.
Borg in carriera ha vinto sei volte il Roland Garros e cinque volte Wimbledon. Ha realizzato per ben tre volte la doppietta (1978-1979-1980), essendo capace di passare dalla regolarità della terra rossa parigina al serve and volley (sulla prima palla) di Wimbledon, in due mesi. Esordì in Coppa Davis a 15 anni, e terminò la carriera con 63 titoli vinti, di cui due Masters (1979, 1980). Diventò numero 1 al mondo il 23 agosto 1977, scese al numero due una settimana più tardi ma, alla fine, fra il 1978 e il 1980, tornò numero 1 per altre tre volte totalizzando 108 settimane al vertice del ranking ATP, ottavo per questo record.
Due idee di tennis, due idee di vita, due estetiche: Borg e McEnroe incarnarono molto di più di una maniera di giocare a tennis. Anche oggi che i due giocano qualche esibizione (McEnroe) o non giocano più (Borg) i loro fan si dividono, come all’epoca, quando si doveva scegliere da che parte stare.
Bisogna scegliere la propria idea del tennis: quella fatta di tocchi sotto rete, classe e genialità, urla plateali e sceneggiate adolescenziali, oppure la calma glaciale dello scandinavo capace di reggere con le sue spalle il peso del mondo, figurarsi qualche plateale urlo di McEnroe, irlandese di sangue, nato in Germania ma americano al 100%. Come in Guerre Stellari, c’era da scegliere da che parte stare, con i Jedi o con l’Imperatore. Quelle due fascette di spugna in testa, a cercare di imbrigliare i ricci ribelli dell’americano o a disegnare quel profilo famoso del vichingo, con i suoi capelli biondi leggermente mossi. I marchi italiani che li vestivano, Fila per Borg, Sergio Tacchini per McEnroe, e quella maniera così diversa di interpretare lo stesso gioco, e con lo stesso obiettivo: quello di non perdere contro l’altro. Borg e McEnroe venivano da due culture diverse, lontane, ma erano molto più simili di quanto non si dicesse. Volevano arrivare in cima, essere i migliori del mondo, e ci sono riusciti entrambi. Solo che, quando c’è riuscito John, Björn ha deciso che il mondo era troppo piccolo per ospitare due numeri 1, e si fece da parte.
Al circolo dove gioco a tennis c’è un giocatore che rappresenta un esatto adepto del culto di John McEnroe. Come se dovesse emulare il suo maestro ancora a molti anni di distanza, anche lui ha la sua nemesi e gioca sempre contro lo stesso avversario: uno capace di tirare oltre la rete tutte le palline, correndo e colpendo in maniera sbilenca, ma ributtando la palla dall’altra parte in maniera stoica.
L’emulo dell’americano gioca rigorosamente vestito di bianco, coi pantaloncini ben sopra al ginocchio e la fascetta di spugna in testa. Durante una delle loro prime partite il McEnroe “romano” si aprì il campo con un bel palleggio da fondo campo e seguì a rete un colpo di approccio. Quando l’avversario, il “pallettaro”, gli alzò un lob, lui si disinteressò della palla, che finì ben dentro la riga di fondo campo. Da dietro è difficile avere la percezione della riga di fondo, se non si è proprio smaliziati. Allora il “pallettaro” chiese: «Ma è fuori?». E lui: «No, buona». L’altro: «E allora perché l’hai lasciata?». «È che non concepisco i pallonetti nel tennis». Pura filosofia John McEnroe, portata un po’ all’estremo.
Il 5 luglio del 1980 la finale di Wimbledon vede di fronte John McEnroe e Björn Borg. All’epoca, Borg ha già vinto cinque volte il Roland Garros e quattro volte Wimbledon consecutivamente. La partita non è un semplice match di tennis. Borg contro McEnroe è uno scontro fra titani, uno di quei momenti che immortali per sempre nella memoria, ricordandoti per sempre dov’eri, con chi eri e che emozioni hai vissuto, anche decenni dopo. Si narra che Nelson Mandela riuscì a convincere le sue guardie a Robben Island a procurargli una radio in modo da poter ascoltare la cronaca; Andy Warhol si alzò presto nella casa di sua madre, a New York, per non perdersi la diretta.
Si gioca con le palline bianche, il campo è rovinato. Borg conduce due set a uno, nel quarto serve sul 5-4 in suo favore. Si porta sul 40-15, a un punto dal diventare nuovamente Re a Londra. Ma John McEnroe semplicemente, rifiuta di perdere: piazza due passanti, annulla le palle match e con un “c’mon” che terrifica i presenti strappa il servizio. Altri due turni alla battuta facili e si arriva al tiebreak, quel tiebreak.
McEnroe annulla 7 matchpoint e porta Borg al quinto set vincendo il tiebreak 18 a 16.
Alla fine del tiebreak Borg cammina sconsolato verso il suo angolo. Molti anni dopo, dirà: «Quella camminata è stata il momento più duro della mia carriera. Pensavo che la partita la vincesse McEnroe. Il primo game del quinto set fu decisivo: lo giocai incredibilmente bene e riuscii a vincere la partita». In tutti questi anni lo svedese non ha mai rivisto in TV quella partita, finché suo figlio non l’ha costretto a farlo.
Se quando giocava a Londra seguiva la solita routine, ovvero stesso hotel, stesso numero di asciugamani in campo, stesso spogliatoio, borsone del campo sempre ordinato e preciso, con le donne si lasciava andare – anche se durante Wimbledon si asteneva dal sesso. Lo svedese ha avuto il suo bel da fare fin da quando incontrò la tennista Mariana Simionescu, che lasciò per un’altra donna conosciuta quando fu invitato a fare il giudice ad una gara di “Miss maglietta bagnata”, tanto che ci fece un figlio. Fu poi la volta del matrimonio con Loredana Berté, che gli fu presentata dal suo ex fidanzato, Adriano Panatta.
La cantante italiana ha ricordato così il periodo vissuto con Borg. «Mi piaceva l’idea di stare con un uomo come lui, non avevo niente da perdere e quindi ci sposammo. Lui non sopportava le mie tournée. Lasciai l’Italia per sei anni, fu un inferno. Lui non mi lasciava mai e dovunque cantavo veniva riconosciuto e gli consegnavano le chiavi della città. Mi fece litigare anche con i miei manager perché voleva tornare a Stoccolma facendomi stracciare dei contratti milionari».
La Bertè, nel 2014, lanciò altre accuse pesanti a Borg, sia sul presunto uso di droghe che sul rapporto con la madre, che a suo dire avrebbe voluto solo figli di sangue totalmente svedese. Mentre lui si barcamenava a fatica fra attività imprenditoriali che non andavano bene – come la sua azienda che produceva underwear e che portava il suo nome – nel maggio del 1992 Loredana Berté pose fine al matrimonio con Borg. Almeno così credette. Borg si risposò nel 2002 con Patricia Östfeldt. Nel 2009, Loredana Bertè va a votare e scopre di essere ancora la signora Borg. Un anno dopo lo denuncia per bigamia alla questura di Milano chiedendo cinque milioni di euro per alimenti non pagati. Nel mezzo della loro storia ci furono due tentati suicidi, uno per parte. Nel frattempo, Borg era tornato a fare la cosa per lui più semplice al mondo: giocare a tennis.
Nel 1991, Björn Borg accetta l’invito degli organizzatori del torneo di Montecarlo, dove è di casa. Björn abita a Cap Ferrat, a 20 minuti di strada. Ha un problema con le racchette, visto che vuole giocare con quelle di legno. Con le sue Donnay oramai inservibili, si rivolge a un artigiano di Cambridge, che gliele replica e dipinge di nero, senza alcuna scritta. La Donnay, all’epoca, sponsorizza la Pro One di Andre Agassi, un salto nell’iperspazio rispetto al legno dello svedese.
Le aspettative sono altissime. Lui dichiara di stare bene; nei mesi precedenti si è allenato con il suo connazionale Jonas Svensson che, interrogato sulla condizione dell’ex numero 1, risponde così: «Borg è ancora il miglior giocatore del mondo con una racchetta di legno». Il problema è che il tennis è andato avanti, e un modesto terraiolo come Jordi Arrese, impugnando una Dunlop in grafite che consente di tirare sempre più forte riducendo il margine di errore, non ha problemi a vincere la partita.
In Italia è Tele+ a trasmettere il match e sugli spalti, le sue groupies, cantano “Vive Le Roi! Long Live the King!”. La partita è romantica. Fa impressione vedere Borg palleggiare da fondocampo staccando la mano sinistra quando libera il rovescio, trovando una velocità di palla che nel frattempo è cresciuta. E quando mette a segno un vincente, la folla vive la gioia più gloriosa.
Il giorno prima del match Loredana Berté, sua moglie, decide di inghiottire circa 100 pillole di barbiturici in quello che sembrerebbe un tentato suicido. La stampa dell’epoca ipotizza che si sia trattata di una messa in scena, un richiamare le attenzioni di Borg che qualche giorno prima è stato fotografato in compagnia di un’altra donna. La Berté se ne era accorta sfogliando le pagine di un rotocalco.
Borg quel giorno con la sua racchetta dipinta di nero.
«Le mie aspettative erano basse. Dopo 8 anni era impossibile giocare bene al primo incontro. Però, oggi, ho capito molte cose. Anche se ho perso, mi sono divertito. Mi piace giocare di nuovo». All’epoca i suoi piani erano di giocare Roma, il Roland Garros e Wimbledon. «Mi servono altri tornei per tornare al 100%. So che giocando migliorerò». Non giocherà nessuno di questi tornei, e negli altri che giocherà rimedierà solo sconfitte.
Il vincitore di quel giorno, Jordi Arrese, un onesto faticatore di questo sport, dichiarò: «Non scambierei questa giornata con niente al mondo. Questo giorno rimarrà nel mio cuore per sempre».
Qualche anno fa, in occasione del ritiro del premio “BBC Sports Personality lifetime achievement award”, Borg ammetterà che, all’epoca del rientro a Montecarlo, non era preparato, e che avrebbe scelto di giocare il circuito Senior se ci fosse stato all’epoca. «Volevo solo tornare a giocare a tennis», disse. Giocò con la racchetta di legno, perché non aveva provato altro e non vedeva il motivo di cambiare.
Ma per molti la partita contro Arrese non conta: Borg aveva smesso di giocare in quel pomeriggio di Montecarlo contro Leconte. In quel rientro c’era dell’altro: forse Borg non sentiva di essere a posto nei confronti del tennis. Era stato il numero uno, e aveva chiuso bruscamente quando aveva capito che non lo sarebbe stato più a lungo. Doveva, forse, sopire qualche fantasma interno, chiudere i conti con una carriera lasciata in sospeso. Ma il risultato non fu romantico, nell’accumularsi di quelle sconfitte contro carneadi della racchetta, lui che tutti ricordiamo inginocchiato sull’erba di Wimbledon con le mani sul volto dopo la vittoria.
Borg torna a dire basta, si ritira in una casa in Svezia, prova a risollevare l’attività di moda underwear che in Svezia lo vede al numero due nelle vendite, dietro gli americani di Calvin Klein. Ogni tanto si vede in tribuna con Patricia Östfeldt, con la quale vive tuttora. I due hanno avuto un figlio di nome Leo. «Tutti vorremmo stare con la tessa donna per sempre, ma se non si è in pace con se stessi il matrimonio è difficile che funzioni», ha dichiarato qualche anno fa a proposito del suo rapporto travagliato con le donne.
Nel 2006 arriva la notizia che Borg sta mettendo all’asta i suoi trofei, pare per problemi finanziari. «Mi sono chiesto se a 50 anni dovessi vendere i trofei di Wimbledon e Roland Garros, gli unici che avevo conservato perché gli altri li avevo ceduti ad enti di carità o organizzazioni benefiche. Non sono i trofei a preservare le memorie di quelle vittorie, per quanto mi riguarda». Fu contattato da mezzo mondo che gli ordinava di non vendere quei trofei. Anche McEnroe gli telefonò per il classico «What the hell are you doing?»; si dice che si offrì di comprarli lui. Borg li ritirò dalla vendita.
Articolo pubblicato su l’Ultimo Uomo