Abbiamo problemi con la gente.
Forse è perché se ripensiamo a quel sabato pomeriggio, più di cinque anni dopo, ancora ci stringe un po’ il cuore. E non perché Francesca Schiavone è italiana; piuttosto perché con quella vittoria così improvvisa, così imprevedibile, così straordinaria, Francesca ci ha ricordato quanto possa essere sublime il raggiungimento dell’obiettivo dopo aver lavorato, sognato, sudato troppo. In un pomeriggio di inizio giugno Francesca ha cominciato a crederci davvero, a giocare sempre meglio, a trovare soluzioni sempre più incredibili per vincere il punto. Lei che è piccolina, che non ha un servizio particolarmente incisivo, che ha il rovescio a una mano, sembrava sempre destinata a soccombere contro chi colpiva più forte. Invece, mentre mezza Italia si affannava a cercare su Wikipedia qualche informazione su una tennista di cui forse conoscevano il nome, forse il volto, di certo non la storia, lei è riuscita a vincere sette partite di fila nel torneo che più conta se sei una tennista italiana e sei cresciuta sulla terra battuta. Baciò la terra rossa, la assaporò fino in fondo e l’anno successivo, per ricordarci che quella vittoria non fu un caso fortuito, vinse sei partite. Mancò la settima, ma poco importa, perché regalò le stesse emozioni di dodici mesi prima. Ci stringe un po’ il cuore perché Francesca Schiavone, a quel record di partecipazioni consecutive negli Slam, forse teneva molto.
Era il 2000, a New York c’erano ancora le Torri Gemelle, e Francesca giocava il suo primo Slam: doveva giocare le qualificazioni, perché mica è una di casa, ma le passava senza troppi patemi. Poi vinceva altre due partite e alla fine, alla sesta partita, si arrendeva. Ma per quindici anni non si è più fermata. Ogni volta che usciva l’entry list di uno Slam, Schiavone c’era. Alla terza partecipazione, quando era poco più che ventenne, sperimentò l’emozione del primo quarto di finale. Al Roland Garros, si capisce, perché quel dritto in top-spin trova la sua sposa perfetta nella terra battuta, che ne esalta ulteriormente il rimbalzo, rendendolo ingestibile. Di quelle otto che arrivarono ai quarti è rimasta solo Serena Williams, che pure perse come Francesca, ma aveva molto altro da dare negli anni a venire.
Il momento di Schiavone è arrivato molto più tardi di quello di Serena. Ma chi se l’aspettava, onestamente? Dopo un avvio di torneo balbettante, la milanese era tornata nei quarti del Roland Garros nove anni dopo la prima volta, battendo avversarie toste ma non impossibili. Pochi si erano accorti di lei: aveva fatto molto più rumore il percorso di Samantha Stosur, che prima aveva battuto una che aveva vinto quattro volte il titolo e voleva tornare a spaccare il mondo (o, quantomeno, Parigi) e poi la numero 1 del mondo. Non sembrava possibile che Schiavone potesse superare davvero quei bicipiti, quel servizio in kick, quel dritto così potente. E invece avvenne il miracolo, perché quel giorno venne a galla la qualità maggiore di Schiavone: la capacità di intuire le falle delle sue avversarie, di scavare pian piano nei dubbi di chi le sta di fronte, l’umiltà nel saper stringere i denti quando le cose non vanno come dovrebbero andare.
Quasi sei anni dopo, ad un passo dal record che avrebbe contato così tanto per lei, Schiavone si è dovuta fermare contro una tennista che, come lei, ha avuto il momento di maggiore notorietà a Parigi. Ci ha messo tutta sé stessa, naturalmente, ma ormai l’orgoglio non basta più. Quei colpi sempre diversi l’uno dall’altro hanno perso qualche centimetro e la palla ha perso qualche giro al secondo; le gambe arrivano qualche frazione di secondo più tardi e il braccio non gira più come una volta. Ma forse, più semplicemente, è successo qualcosa nella testa di Francesca, che quando si complimentava con Flavia Pennetta per il suo primo Slam, sembrava parlare già da ex. Ed è inevitabile pensarla come tale, perché dopo averla vista vincere e perdere tante partite, ci sembra quasi irrispettoso che sia costretta a passare dalle qualificazioni per giocare gli Slam.
È inevitabile, dopo una sconfitta così irrilevante eppure così sanguinosa, ripercorrere la carriera di una delle più grandi tenniste italiane di sempre – e solo l’ultimo Slam ha messo in dubbio la questione – o ricordare le battaglie di una giovane Schiavone contro una generazione che oggi chiameremmo aurea. Quand’era niente più che una comprimaria, Francesca perdeva tante finali perché le avversarie, nei tornei che contavano qualcosa, si chiamavano Davenport, Henin, Clijsters. Poi, quando c’è stata l’opportunità di infilarsi, Francesca è stata brava – più brava di molte altre – ad infilarsi e a giocare, per almeno due anni, un tennis alla portata di pochissime per varietà e spettacolarità. Meno di un anno fa – ancora a Parigi, ovvio – giocò una partita meravigliosa e lunghissima contro Svetlana Kuznetsova, uno dei talenti più cristallini e pigri della sua generazione. L’incontro che ne venne fuori fu ricco di colpi di scena e ribaltamenti di scena, in puro stile Schiavone (e Kuznetsova). Si affrontavano due campionesse del torneo, nonché le due tenniste che in Australia avevano dato vita al match più lungo della storia del tennis femminile. E sul campo numero 1, quel pomeriggio, non mancò nulla: ci furono il match point annullato con il rovescio lungolinea, i nove break consecutivi e un terzo set alla distanza. Giocarono 43 game, esattamente quanti ne giocarono nel 1999 Silvia Farina a Ai Sugiyama, la tennista che Francesca stava rincorrendo a Melbourne ieri notte. Quell’ultimo ruggito della Leonessa parve un buon auspicio per l’ultima parte della carriera di Schiavone. Il 2016, per ora, sembra avere altri piani.