Abbiamo problemi con la gente.
«Questi due, se mi consentite il paragone, mi sembrano Borg contro Vilas. Giocavano alla stessa maniera ma vinceva sempre Borg». Le parole di Adriano Panatta, commentatore d’eccezione per Eurosport agli Australian Open, sintetizzano l’andamento dell’ennesimo Slam (l’undicesimo) vinto da Novak Djokovic, il sesto Australian Open, come solo Roy Emerson ha saputo fare (solo che i suoi non erano mica Open). Ma era un altro tennis, si dice. E speriamo che si dirà lo stesso anche del tennis di oggi, quello che si avvia ad essere sempre meno divertente, specie se a vincere sono sempre gli stessi, come si diceva della Germania nel calcio.
Non possiamo dare le colpe di questo a Novak Djokovic. Lui fa quello che sa fare, bene; il problema è che questa impressionante mole di vittorie consecutive, questi record che lui sistematicamente migliora, il divario certificato dal ranking ATP con gli altri (ha quasi il doppio dei punti del numero 2, proprio Andy Murray), non fa altro che renderlo ancora più forte, creando una sorta di aura che condiziona gli altri giocatori ancor prima di incrociare dritti e rovesci con lui.
Il problema dell’affrontare Djokovic oggi è quello dell’affrontare Federer nel 2004-2007, o Nadal sul rosso fino a un paio di anni fa. Si parte già battuti prima ancora di scendere in campo, come ha dichiarato Gilles Simon in conferenza stampa dopo le 4 ore e 32 minuti dei cinque set, unico ad aver impegnato Djokovic in questo torneo.
C’è la paura di affrontare il numero uno, la paura di interrompere la rincorsa ai record di Novak Djokovic, che deve recuperare Slam su Nadal e su Federer, a secco da un paio d’anni il primo, da quattro il secondo. Se invece sei Andy Murray, uno che un paio di Slam li ha vinti, se non sei convinto di avere le energie necessarie a battere uno che gioca il tuo stesso gioco ma meglio di te, allora la partita non è tale.
L’uomo che è un misto ferro-gomma, come ribadisce Panatta, o che ha la mano che può essere ferro, quando inchioda i suoi avversari su diagonali profonde e potenti, o piuma, quando stacca la mano per toccare delicatamente la smorzata sul lungolinea dal lato del rovescio, ha esultato dopo aver vinto il sesto Australian Open con un normale pugnetto, come quando ha battuto Chung al primo turno. Sta diventando una routine, oramai, quella di vincere finali Slam senza neanche soffrire più di tanto.
E qui più che parlare del torneo di Novak Djokovic l’esercizio è cercare di capire chi potrà veramente scrivere una pagina nuova in questo tennis, al di là delle sconfitte due su tre che Novak concederà, magari a Miami, dopo aver vinto Indian Wells, passato febbraio ad allenarsi e a ricaricare le energie mentali. Perché poi, negli Slam, si tornerà a fare sul serio. E serviranno le giornate di grazia, quella di Wawrinka a Parigi, per intenderci, ché chissà se ritornano.
La partita
Il trattamento “Nadal”, il 6-1 6-2 inflitto da Djokovic allo spagnolo nella finale di Doha, è stato applicato anche a Murray. Federer si era preso un 6-1 6-2 in semifinale e pure Murray si è iscritto al club 6-1. E ha rischiato anche di non fare quel game, se non fosse che Djokovic, per ricordare al pubblico che è un essere umano, ha giocato il punto del 30-30 sul servizio Murray come se stesse scherzando in allenamento, per non dare un 6-0 all’avversario: sarebbe stato troppo per lui.
Poi è arrivato il momento dell’illusione, un secondo set in cui c’era finalmente partita, almeno nel punteggio, con Murray che iniziava a prendere rischi, l’unica strada per fare match pari col numero 1. Lo scozzese, inevitabilmente, era chiamato ad alzare il ritmo, creando l’illusione che ci fosse una partita. Ma Djokovic controllava sempre tutto, capace com’era di recuperare un 40-0 sul servizio di Murray, demolendo le certezze dello scozzese vincendo uno scambio di 36 colpi, conquistando break e set.
E poi il terzo set, la passerella. Un break conquistato in avvio con un rovescio lungolinea vincente, che per usare parole di Adriano Panatta, quando commenta per Eurosport il replay di questo punto straordinario: «Guardate come ha colpito in maniera coordinata nonostante fosse in recupero, uno normale qui si rompe tre legamenti crociati». Un punto che è la sintesi della partita, con Murray che chiama il falco, come a invocare un aiuto esterno, perché lui da solo non ce la fa. Ma non è il solo.
È stata una partita con pochi vincenti, avara di punti spettacolari, priva di discese a rete, con la maggior parte degli scambi indirizzati verso il centro del campo. Non sia mai si lasciassero spazi di campo scoperti dove affondare il colpo prendendo qualche rischio, giocando d’anticipo. Tanti errori, specie di stanchezza, con neanche quel sottotesto pugilistico della meravigliosa sfida che combatterono Nadal e Djokovic nel 2012, sempre in Australia, sempre in finale, quasi 6 ore a darsi cazzotti con la racchetta.
E quindi alla fine fra commentatori televisivi e commenti sul web si fa ricorso alla parola umanità. Quando bisogna scrivere del più forte di tutti si cerca di inventarsele un po’ tutte: Robonole, indjokabile, inarrestabile, unstoppable, imbattibile. Eppure Nole continua a tradire un po’ di emotività: qualche falla su cui lavorare c’è, seppure minuscola, e anche oggi si è visto. L’unico che l’ha intravista negli ultimi 12 mesi, però, è stato Stan Wawrinka. Per tutti gli altri, invece, le piccole crepe di questo robot sono solo un minuscolo appiglio per provare a fare partita pari per qualche game, o per un set intero, nulla più.
Il futuro
Come farà il tennis nei prossimi mesi, o nei prossimi anni? Forse sarà il caso di cominciare ad apprezzare le partite dei turni minori, quando i numeri delle classifiche sono più basse e la varietà dei giocatori consente ancora dei begli incroci di stili. Perché poi quando si arriva in fondo ci saranno sempre loro, e Federer sarà sempre più chiamato a portare la croce del bel tennis, delle volée in controtempo, della fantasia. Forse ci sarà da divertirsi maggiormente nei Master 1000, dove la formula del due su tre consentirà maggiori sorprese, consentirà di giocare un tennis meno attendista, meno ragionato sulla lunga distanza. E forse, ribadiamo forse, più divertente.
Perché, altrimenti, non rimane che sperare nel ritorno di Rafael Nadal a Parigi, più per il romanticismo di un vecchio e logoro campione che altro, o sognare Federer vincente a Wimbledon, per il trionfo dell’immortalità più che la vittoria della speranza. Chi rimane fuori? Sempre loro, i giovani (o pseudotali) e quelli che ormai si sono arresi a fare da scenografia. Perché per un Raonic che a inizio torneo dice di sperare di fare l’anno senza infortuni, per poi infortunarsi mentre sta vincendo la semifinale con Murray, c’è un Dimitrov che arranca nelle immediate retrovie. Per un Tomic alla ricerca della maturità, c’è un Kyrgios che per ora si accontenta dei colpi da condividere sui social network. E sui grandi nomi che fanno da comparsa nei quarti di finale, o in qualche sparuta semifinali, si è già detto e ripetuto tutto quello che c’era da dire.
Qualche anno fa, quando vincevano anche i Federer e i Nadal, e qualche volta Murray, questo Djokovic così andava bene a tutti. Ora che è rimasto da solo a vincere è diventato un problema. Ma noi staremo sempre qui, o lì, a seguire questo dannato sport che diventa sempre più noioso anno dopo anno. Il divertimento e le sorprese torneranno, inevitabilmente, come insegna la storia di Serena Williams l’imbattibile, e che poi ha perso due Slam di fila in maniera rocambolesca e drammatica. Speriamo solo che non si debbano aspettare i 34 anni di Novak Djokovic.