Abbiamo problemi con la gente.
Tutte quelle fasce e quei cerotti con cui ormai Radwanska si ricopre ad ogni partita – sarà diventato un rituale? – sono un simbolo fin troppo facile da accostare al tennis sui generis della polacca. Perché se c’è un tennis che si basa su equilibri sottilissimi, su colpi improvvisati e geniali, su toppe che devono mascherare una struggente fragilità, quello è il tennis di Agnieszka Radwanska.
Nella finale delle WTA Finals di Singapore con Petra Kvitova si affrontavano due tenniste speculari, accomunate da un talento fuori dal comune, ma divise da tutto il resto. Petra gioca colpi perfetti, puliti: quando la palla esce dalla racchetta della ceca sembra quasi non giri su se stessa. Agnieszka, invece, deve giocare colpi sempre diversi, cambiando di continuo rotazioni, traiettorie, angoli, per sopperire alla leggerezza del suo tennis. Petra dà il meglio sull’uno-due, quando deve colpire da ferma in modo da poter sprigionare tutta la sua potenza e la sua perfezione stilistica senza dover aggiustare la sua posizione in campo; Agnieszka, invece, diventa pericolosissima quando viene spostata e costretta a inventarsi soluzioni sempre nuove e sorprendenti. Il primo è il tennis dell’equilibrio statico; il secondo è quello delle geometrie dinamiche.
Se è vero, come diceva David Foster Wallace, che il tennis agonistico richiede una mente geometrica in grado di calcolare non solo le angolazioni dei propri colpi ma anche quelle prodotte dall’avversario in una funzione che aumenta di complessità all’allungarsi dello scambio, allora non c’è dubbio che il gioco di Radwanska sia l’espressione più pura e idealizzata di quello sport che siamo soliti chiamare tennis. Pare che la divinità che sovrintende questa disciplina abbia deciso di dare una racchetta in mano alla polacca lasciandole giusto quei grammi di potenza necessari per rimandare di là la palla e produrre scambi interminabili e complicatissimi. I punti che ne derivano sono un insieme di combinazioni che si moltiplicano e danno come prodotto sequele irreplicabili di colpi sempre diversi. Il tennis di Radwanska è un tennis astratto che si basa sulla cognizione del dolore. Quella divinità, forse, ha esagerato: il fisico a supporto di Agnieszka è talmente fragile da suscitare quasi tenerezza, specie quando la polacca deve affrontare avversarie che la doppiano in potenza.
Il grunting stesso di Radwanska è indicativo: non è affatto artificiale come quello di Sharapova e Azarenka, ma la naturale conseguenza della sofferenza che Agnieszka deve mettere in ogni colpo, in ogni punto, in ogni magia. Coerentemente con il suo tennis, il torneo più importante che ha vinto fino ad ora è stato una lunga agonia. Radwanska è arrivata a Singapore grazie soprattutto a un’ottima seconda parte di stagione (vittoria a Tokyo, semifinale a Pechino e vittoria a Tianjin). L’highlight, almeno fino a ieri, era l’ennesima occasione mancata a Wimbledon. Magari non quella di vincere – ché contro Serena ci sarebbe stato poco da fare – ma almeno quella di giocarsi un’altra finale. E magari sfruttare i momenti di debolezza della statunitense meglio di quanto (non) abbia fatto Garbiñe Muguruza. Se non altro il torneo londinese è servito come propellente: Radwanska, dopo Wimbledon, ha dato una sterzata alla sua stagione riuscendo a qualificarsi per Singapore. Un riconoscimento a una tennista tanto fragile nel suo tennis, quanto granitica nei risultati: ha vinto almeno un torneo negli ultimi cinque anni (e solo l’anno scorso ne ha vinti meno di tre), ha raggiunto almeno una semifinale Slam negli ultimi quattro e si è qualificata al torneo di fine anno per la quinta volta consecutiva.
Quando è stata sorteggiata nel gruppo con Simona Halep, Maria Sharapova e Flavia Pennetta, la polacca sembrava avere più di qualche chance, specie alla luce delle ultime partite giocate. Invece contro Sharapova e Pennetta ha vinto appena un set. Ma sarà un set decisivo: nel terzo turno del round robin, infatti, l’unica combinazione che poteva qualificare Radwanska (lei vittoriosa in due set, Sharapova vittoriosa in due set) è magicamente avvenuta. Aga ha fatto il miracolo quando le sue incerottate spalle erano ormai al muro: sotto 5-1 nel tie-break del primo set contro Simona Halep, la polacca si trovava a due punti dall’eliminazione. Sopravvissuta chissà come, nel secondo set ha fatto valere la maggiore esperienza contro una Halep scarica forse più nella testa che nel fisico. Le energie di Radwanska, invece, sono interminabili. Ed è solo con una grande tigna che Radwanska è riuscita a venire a capo della potenza di Muguruza in semifinale e di quella di Kvitova in finale. Ha stretto i denti quando la spagnola ha recuperato il break nel terzo set e non si è data per vinta quando la ceca ha messo a segno un parziale di 7 game a 1 tra secondo e terzo set.
La stagione che sembrava quella del tramonto, insomma, si è chiusa con la vittoria più prestigiosa. Fino al Roland Garros, Radwanska aveva vinto 15 partite e ne aveva perse 13. Da Nottingham in poi lo score è 41-12 (tra cui le ininfluenti sconfitte alle WTA Finals). Ma iniziare male non significa necessariamente finire male. E a Singapore Agnieszka Radwanska lo ha dimostrato nel corso del torneo stesso. Come ha detto lei: “Non importa come inizi, ma come finisci”. Una frase che vale non solo per Singapore, ma per tutta la stagione.