Abbiamo problemi con la gente.
Il guaio, per Steve Johnson, è che è nato nel paese peggiore che gli potesse capitare. Essere numero 33 del mondo, tutto sommato, non dev’essere così male: hai solo 32 tennisti in tutto il mondo, davanti a te. Certo, non saresti ancora testa di serie, se la settimana prossima ci fosse uno Slam. E certo, non hai ancora vinto un titolo in carriera. I giudizi su Steve Johnson sono così: c’è chi loda il suo tennis da self-made man, quel tennis da 72 vittorie consecutive nel circuito NCAA (cioè il circuito universitario degli States) e c’è chi ne minimizza i risultati ottenuti da professionista, indicandolo come simbolo di un tennis americano sempre più in crisi. Purtroppo Johnson è nato ad Orange in California (sì, proprio nell’Orange County raccontata da quella patinatissima serie televisiva per adolescenti) perciò non si riesce proprio a prescindere dalla sua nazionalità quando si deve raccontare questo personaggio così poco appariscente. E poi non è né troppo giovane per far riporre qualche speranza ai suoi connazionali, né troppo vecchio per renderlo un modello di tenacia per i suoi colleghi più giovani. Così come esaltiamo Victor Estrella Burgos perché viene dalla Repubblica Dominicana e ha avuto il coraggio di rilanciarsi qualche anno dopo aver compiuto i trent’anni, così ce la prendiamo con Steve Johnson perché viene dagli Stati Uniti, la nazione che non tollera la mediocrità, e perché tutto sommato ha quasi 26 anni. Nel tennis di oggi, è nient’altro che un medioman.
A guardare il profilo di Steve Johnson su Twitter, non si può fare a meno di sorridere: c’è tantissimo football americano (ovviamente con gli USC Trojans, la squadra di football americano dell’University of Southern California, per la quale ha giocato Johnson stesso nel periodo universitario), intervallato da qualche sporadico tweet sul tennis in cui ringrazia il torneo per quello che è sempre un “amazing event”, a prescindere dal risultato. Oppure c’è qualche tweet sponsorizzato, tipo questo photo shooting organizzato da American Express che non ha ottenuto nemmeno un retweet.
Stop by and join me for a photo on the American Express Fan Court, located in the US Open American Express Fan Experience by the east gate
— Steve Johnson (@SJohnson_89) September 2, 2015
Un medioman pacato, pure nei commenti. Quando la polizia di New York placca e mette a terra James Blake con una violenza purtroppo non inusuìitata, Johnson utilizza un mirabolante ossimoro per descrivere il comportamento dei poliziotti: “un po’ eccessivo”:
Seems a bit excessive. James might the the most calm and easy person to talk too. https://t.co/j5OcIpQvfz
— Steve Johnson (@SJohnson_89) September 11, 2015
Il web non racconta molto di Steve Johnson e in effetti è pure difficile orientarsi con un nome così comune (suo padre stesso, che è stato il suo primo maestro e che gestisce un’accademia da oltre trentacinque anni, si chiama Steve Johnson). Se si va a dare un occhio su Wikipedia, si scopre che ci sono almeno altri otto Steve Johnson nel mondo dello sport.
La storia di questo tennista non è molto diversa da quella di altri eccellenti giocatori del tennis universitario. Quello che rende un po’ più speciale Johnson, però, è che dopo il primo titolo NCAA ha deciso di rimanere nel mondo universitario, contribuendo insomma a costruire l’immagine di un talento mediocre che preferisce palcoscenici meno nobili in modo da brillare un po’ di più di quanto gli consentirebbe il professionismo.
La verità è che Steve Johnson stava solo aspettando. Così, dopo due titoli consecutivi nel NCAA, è arrivato anche il suo momento. Ha già partecipato agli US Open 2011 e 2012 (in quanto campione universitario) ma è nel 2013 il suo vero debutto tra i grandi, incoraggiato forse dal terzo turno ottenuto a New York nel 2012. Il primo anno, però, non è un granché: negli Slam non vince nemmeno una partita e il grosso dei punti che gli permettono di chiudere al 156° posto del ranking provengono dai challenger. È il numero 14 del suo paese e ben pochi si accorgono di lui. Nel 2014 Steve, che ha già 24 anni, cambia marcia all’improvviso. Vince una sola partita negli Slam (al Roland Garros, perché si trova meglio sulla terra) ma grazie a qualche buona prestazione nei tornei minori – tipo Winston Salem, Nottingham e l’ATP 500 di Washington – si costruisce un ranking di tutto rispetto. A fine anno è il numero 37 del mondo, suo best ranking, ed è soprattutto il numero tre del suo paese. Siamo in tempi di magra e così la stampa comincia ad accorgersi di lui: finalmente Johnson non è più l’eroe del tennis universitario che non conta nulla tra i professionisti.
USA Today, a inizio 2015, gli dedica un pezzo durante gli Australian Open che comincia così:
Tra i corridoi della Rod Laver Arena, un disinvolto saluto da parte di Roger Federer significa qualcosa: significa che ce l’hai fatta. “Heyyy” sussurra Roger quando lo incrocia, “Stevie J”. È un chiaro segno che lo statunitense Steve Johnson, 25 anni, ha apposto il suo marchio nel livello più alto del tennis che conta, salendo di oltre cento posizioni nell’ultimo anno.
È un po’ buffo che il riconoscimento del valore di un tennista sia certificato dal fatto che Roger Federer ti riconosca o meno quanto ti incrocia negli spogliatoi, ma per gli statunitensi dev’essere così. Il 2015 è un anno di buoni risultati che permettono a Johnson di gravitare intorno alla cinquantesima posizione. Raggiunge il terzo turno sia a Melbourne sia sull’amata terra a Parigi, vincendo in due soli Slam più partite di quante ne aveva vinte nelle precedenti dieci partecipazioni. Ma soprattutto Johnson comincia a fare quello che più ci si aspetta da un tennista mediocre: perde raramente con chi è più in basso di lui in classifica. I nomi degli avversari che l’hanno battuto da gennaio ad oggi sono piuttosto importanti: Nishikori, Anderson, Karlovic, Nadal, Fognini, Wawrinka, Dimitrov, Goffin, Cilic, Murray, Ferrer. Non è un tennista da exploit, anche se a Washington e a Vienna può vantare vittorie di prestigio come quelle contro Tomic, Dimitrov e Sock negli States e quelle più recenti contro Anderson e Gulbis in Austria. Ferrer, che non avrebbe tanto bisogno di punti ma probabilmente continuerà a giocare finché non sarà sicuro al cento per cento di andare alle World Tour Finals, lo ha sconfitto in una finale molto serrata che avrebbe potuto dare a Stevie J il primo titolo ATP.
Diceva Tito Livio, parlando del console Lucio Emilio Paolo, che i mediocri non sono mai oggetto d’odio, perché l’odio punta in alto. Così come l’amore, verrebbe da dire. E Steve Johnson pare a tutti gli effetti mediocre. La sua carriera assomiglia a una lunga sequela di step mancati. Pure nella data di compleanno: è nato il giorno prima di Natale. Non è il Messia che salverà il tennis statunitense, questo è certo. Ma da quando è arrivato nei professionisti, cioè due anni fa, ha sempre dimostrato di non volersi fermare. E in fin dei conti si è grandi anche in questo modo, no?