Abbiamo problemi con la gente.
Doverosa premessa: ci piace il tennis e quello che succede sul campo e nelle ristrette vicinanze; ci interessano meno i tennisti e quello che dicono o pensano fuori dal campo. Che Federer non conosca Freud (ma poi chi l’ha letto davvero? E capito? E via dicendo) non è affar nostro. Se Djokovic è così convinto che il Kosovo sia della Serbia, ne prendiamo atto. Scendendo più sul prosaico, che Wawrinka lasci la moglie, la ripigli e poi la rimolli, suscita la nostra curiosità solo perché le vicissitudini famigliari non sembrano intaccare più di tanto la sua carriera, al contrario di quello che ci raccontavano. E che cosa faccia Kokkinakis nel tempo libero non è esattamente in cima ai nostri pensieri. E insomma, quello che volevamo dire è che quello che combinano questi esseri umani tra i 20 e i 35 anni non particolarmente intelligenti né spiccatamente brillanti non ci interessa molto di più di quanto veniamo a sapere riguardo a certi nostri conoscenti di cui avevamo persino dimenticato il nome. Si tratta, questo della vita privata dei tennisti, di un aspetto talmente laterale rispetto a ciò che ci interessa veramente, che raramente ne parleremo su questo sito. Questo articolo costituirà una parziale eccezione, ma come vedrete è un’eccezione davvero parziale.
Piò o meno in contemporanea, Fabio Fognini e Nick Kyrgios hanno salutato il torneo di Shanghai. Fognini ha perso in due set con Kevin Anderson, Kyrgios ha dato il suo bel da fare a Kei Nishikori, vincendo i primi cinque game della partita e costringendo il giapponese a giocare un terzo set piuttosto tirato. Come spesso gli accade, però, Kyrgios si è spento sul più bello, complice anche una risposta da marziano di Nishikori (e l’australiano ha chiesto un contro-falco: cioè ha chiamato il falco sperando che il suo stesso servizio fosse uscito, in modo da rendere vana la risposta di Nishikori). Kyrgios viene considerato più o meno come è stato considerato Fognini fino a poco tempo fa: uno spaccone di talento. Fabio dodici mesi fa lasciava il torneo al primo turno contro una sconosciuta wild-card che non stava tra i primi cinquecento del mondo, salutando con un dito medio che fece il giro del mondo. E anche di lui è stato scritto di tutto, probabilmente molto di più di quanto abbia fatto dentro il campo (e pure quello che succedeva in campo non era sempre inerente al tennis). Ne è stato scritto talmente tanto che le sue intemperanze suscitano meno interesse rispetto a qualche tempo fa. Forse perché si sono ridimensionate anche le aspettative. Oppure perché le intemperanze si sono effettivamente ridotte e di conseguenza se ne parla meno. Oppure perché il giornalismo “ecco-che-cosa-ha-combinato-stavolta” ha trovato qualcun altro a cui dedicare le sue attenzioni: Nick Kyrgios.
Il bad boy Nick Kyrgios è nato in tempi recenti. Da quando esplose davvero – cioè in quell’ottavo di finale a Wimbledon contro Rafael Nadal – a pochi mesi or sono, dell’australiano si conosceva principalmente il lato spettacolare. In attesa delle vittorie, si raccontava di punti abbastanza clamorosi e indici di un talento sconfinato e forse indomabile, spesso accompagnati da reazioni tipiche di uno showman consumato (dopo un gran punto Kyrgios è solito allargare le braccia: ormai è una specie di riflesso automatico). Si era insomma consolidata l’immagine di un Kyrgios sopra le righe ma tutti eravamo pronti a perdonargli quel look, quegli atteggiamenti, quell’espressione a metà tra l’arroganza e la spavalderia. Perché tutto sommato di bravi ragazzi ce ne sono davvero tanti nel tennis e poi abbiamo riempito troppe pagine lamentandoci di quanto i tennisti si siano addomesticati sotto la bandiera del buon senso e del quieto vivere. Che un tennista appena ventenne fosse arrivato all’improvviso a scombussolare quegli equilibri ormai incrostatisi sulle abitudini di noi tutti era in fin dei conti accettabile. Di più: era benvenuto.
Ma qualcosa è cambiato, da allora. A Montréal Kyrgios l’ha combinata grossa, o almeno così ha decretato il Tribunale del Buon Costume. Mentre stava giocando contro Stan Wawrinka – uno che pare suscitare molta poca simpatia nei suoi colleghi che non siano svizzeri – il giovane australiano si lasciò scappare qualche parola di troppo su come si dilettasse la compagna del suo avversario. Tirando in ballo anche il suo (di Kyrgios) amico Kokkinakis. È troppo: non solo Kyrgios non era già al livello dei più forti come tutti si aspettavano ingenuamente dall’anno scorso, ma si permetteva addirittura di lasciarsi andare in dichiarazioni di cattivo gusto.
L’ATP reagì a modo suo, redarguendo Kyrgios col vocione ma punendolo con un buffetto: 10.000 dollari di multa – del resto è la pena massima per i reati cosiddetti verbali – e una sospensione di quattro settimane che di fatto non interessò l’australiano perché due di quelle settimane erano occupate dagli US Open, che non sono un evento ATP, e le altre due o non avevano tornei ATP in programma, o ne avevano di minori. Ma l’ATP si riservò di tornare sulla questione, qualora Kyrgios fosse tornato a conquistarsi i titoli per qualche spacconata extratennistica dal giorno della comunicazione della punizione (cioè il 24 agosto scorso) fino al 24 febbraio 2016. Sei mesi di quieto vivere, insomma.
A quanto pare a Kyrgios dei moniti dell’ATP non interessa granché dato che a Tokyo ha continuato a comportarsi come gli pare: ha scagliato una pallina sul tetto e ha pronunciato vari improperi, cavandosela però con un code-violation che è diventato una modesta multa da 1.500 dollari quando a Shanghai ha ricevuto il secondo code-violation consecutivo (questa volta se l’è presa con la “fucking surface”). Per far diventare effettiva la nuova squalifica – cioè 25.000 dollari di multa e altri 28 giorni di sospensione – Kyrgios deve accumulare altri 3.500 dollari per arrivare alla soglia limite di 5.000 dollari fissata dall’ATP. Non poniamo limiti al talento di Kyrgios: magari ci arriverà lo stesso, ma l’impressione è che l’ATP stia trattando con i guanti di velluto uno dei suoi discoli più problematici. Non che abbiamo così tanto a cuore la maturazione umana di Kyrgios – ma ovviamente ci dispiacerebbe vederlo sprecare un potenziale tecnico così raro – ma la maniera in cui ci si sta rivolgendo nei confronti di questo tennista è abbastanza grottesca. Da un lato c’è un’istituzione che gli lascia fare il bello e il cattivo tempo, punendolo con dei rimbrotti che gli entrano da un orecchio e gli escono dall’altro; dall’altro ci sono dei severissimi censori che non vedono l’ora di raccontare l’ultima malefatta del loro bad boy preferito e che, guarda caso, sono al tempo stesso la cassa di risonanza di quello stesso ego ipertrofico, i cui comportamenti condannano con tanta rigidità.
Si crea, insomma, uno di quei circoli viziosi tipici di questi fenomeni mediatici. Più se ne parla, più si ingigantiscono, più si condannano, più se ne parla e così via. Del tennis giocato, invece, resta gran poco. Insomma, in fin dei conti lasciarsi trascinare nel vortice Kyrgios è fin troppo facile – e nemmeno chi scrive ne è immune, dopotutto – ma questa costruzione di una figura così scollegata dal tennista sta francamente diventando noiosa. Non vorremmo che pure Kyrgios ne prendesse atto, e decidesse di risparmiarsi la fatica di giocare per diventare pagliaccio full-time. Pare che gli venga perfino più facile dei tweener.