Abbiamo problemi con la gente.
Il cannibale; il dominatore; il tennista 2.0. Novak Djokovic. La vittoria di Shanghai, ma più in generale la spaventosa continuità del tennista serbo nel 2015, sta decisamente mettendo paura ad appassionati – sapete, nel tennis non è fine chiamarli “tifosi” – e commentatori. Farete fatica a trovare elegie, nessun David Foster Wallace scriverà racconti, non ci saranno sciami di inviati adoranti a seguirlo durante le sue sessioni di allenamento. E più vincerà, più amplierà, posto che ci riesca, il divario che è sembrato netto in questo ottobre, con gli avversari più si tenderà a farne una parentesi, forse un usurpatore, in ogni caso qualcuno un gradino più in basso del dio e della sua nemesi che lo hanno preceduto. Tutto questo non farà piacere ai suoi affezionati, numero che via via cresce, come sempre quando si vince, ma non è proprio senza ragione. Ci sono vari motivi per cui quel bravo cristo di Novak Djokovic, il numero uno del tennis contemporaneo, non entra e non entrerà né nel cuore di molti né nella piccola storia di questo sport spesso noiosetto.
Cominciamo da quelli squisitamente tennistici. Il gioco di Djokovic è quanto di più noioso si possa osservare su un campo da tennis. Quando serve l’avversario, la straordinaria capacità di riflessi e il perfetto timing sulla palla, agevolato ulteriormente dall’elevato livello tecnologico raggiunto dalle racchette, che consente un controllo del colpo sconosciuto ai tennisti delle epoche precedenti, permette al serbo di prendere immediatamente il controllo dello scambio, come si dice in gergo. Cioè l’avversario è immediatamente costretto a difendersi, nella speranza – due volte su tre vana – o di girare lo scambio, cioè di prendere lui il controllo costringendo Djokovic a difendersi, o dell’errore del serbo. Errore che non arriva praticamente mai, perché proprio le qualità che gli consentono di rispondere così bene lo aiutano a non sbagliare durante lo scambio: gran riflessi, timing perfetto, racchetta splendida. La buonissima preparazione fisica fa il resto, Djokovic non si stanca, non è previsto. Il problema di chi guarda tennis è che questo schema si ripete sempre, inesorabilmente, ogni santa volta che comincia uno scambio. Non esiste “variazione”, non esiste sorpresa. Guardi una partita di Djokovic e sai come andrà a finire: o Nole ha la testa altrove oppure vince. Senza neanche scomporsi, senza neanche sudare, senza neanche spettinarsi particolarmente. Giusto un qualche dialogo col suo angolo quando l’avversario, quella volta su tre, riesce a girare lo scambio con un frequenza superiore ad una volta su cinque.
Lo schema “da risposta” è del tutto identico quando Nole è al servizio con il vantaggio di non dover neanche fare ogni volta una mezza prodezza. Non avendo di fronte uno strepitoso ribattittore come lui, una solida prima è in genere sufficiente a ricominciare da dove si era finiti il game precedente. Nella continua e ripetizione dello scambio, Djokovic diventa la metafora del tennis stesso, della vita forse, da cui non è il caso di aspettarsi chissà quale evento. Finito di servire, Djokovic torna a rispondere e si ricomincia. Djokovic non si altera quando subisce un servizio vincente; applaude quando nel bel mezzo di una decina di scambi visti e rivisti l’avversario si ribella e si inventa uno scambio miracoloso. Si innervosisce soltanto quando, dopo aver risposto bene, cioè in modalità Djokovic, per due tre volte di fila l’avversario non è letteralmente travolto dalla sua risposta e riesce a evitare di dover scambiare in perenne allungo, in perenne modalità “inseguimento”. Quello lo infastidisce e se mai qualcuno riesce a farlo con una discreta costanza Djokovic perde un po’ di tranquillità.
Non è un problema perdere con Karlovic se il croato non ti fa mai rispondere; non è un problema perdere con Federer, troppe sono le armi che lo svizzero ha a disposizione e Djokovic sa perfettamente che se le usa tutte quante a lungo ci può fare poco. È un problema perdere con Murray; è un problemone perdere con Wawrinka. La sconfitta del Roland Garros ha messo plasticamente in luce la totale mancanza di un piano B del gioco di Djokovic. Si è consegnato alla sconfitta non mutando di una virgola il suo atteggiamento in campo, nonostante fosse chiaro a tutti come Stan non avesse nessun problema a riprendere lo scambio in mano dopo la risposta di Djokovic. Nulla a che vedere con la nemesi del dio, il mancino di Manacor. Rafa si sarebbe inventato mille e mille trucchetti prima di consegnarsi a Stan; avrebbe perso lo stesso, chissà, ma non in quel modo. In questo va ricercato il poco appeal del serbo all’interno dei campi da tennis. Nadal non è stato una provvidenza divina solo perché mostrava che anche l’intollerabile perfezione può essere sconfitta. Certo, molti lo hanno adottato solo perché era l’antagonista, il brutto anatroccolo che sconfiggeva il cigno superbo. Ma non era solo questo, Nadal si ribellava al corso della storia. Nole no. Non vince partite che ha perso – lasciate stare quelle del 2011, era un altro Djokovic – non perde partite che ha vinto.
A queste motivazioni tutte interne al campo di gioco purtroppo finiscono con il sommarsi elementi estranei al gioco ma che aiutano a capire perché mai il serbo non avrà mai il seguito di Nadal o – figurarsi – di Federer. Ma al contrario di quello che succede in quell’area di 23,77 x 10,97, sono molto meno nobili e condivisibili le ragioni di questo distacco. Per quanto è noioso all’interno del campo gioco Djokovic sembra brillante e tormentato fuori. A differenza dei suoi predecessori Nole non si è certo negato ai divertimenti – dalle imitazioni alle comparsate televisive – ma soprattutto non ha evitato di prendere posizioni scomode, soprattutto all’inizio della sua carriera. E a differenza di Federer e Nadal non è disposto ad assecondare i ritmi ipocritamente garbati dell’intero carrozzone dell’ATP. Non che sia maleducato Nole, anzi. Ma è il tipo che se fa un complimento diplomatico capisci subito che cosa pensa realmente e spesso non è proprio lusinghiero. Non come Federer, non come Nadal. E non è un caso che l’unica volta che un pubblico è stato empatico col serbo è stata a Parigi dopo la peggiore sconfitta di Nole. Perché la noia nel campo da tennis e la brillantezza fuori vengono tollerati a patto che perdi. Ma non è roba da Nole Djokovic perdere troppo.
Si rasserenino però detrattori e appassionati. Nole non batterà che dei record minori, non intaccherà il tempio del tennis.
E nessun struggimento accompagnerà i suoi ultimi passi nel campo da tennis.