Abbiamo problemi con la gente.
A quanto pare i più giovani tra noi non hanno vissuto abbastanza per vedere compiersi un Grande Slam. Ma hanno vissuto a sufficienza per vedere qualcosa che difficilmente sapranno raccontare adeguatamente a chi non c’era: un’italiana che batte in semifinale degli US Open una tennista a cui mancavano tre set per il Grande Slam. Ad aggiungere èpos ad un racconto che non avrebbe bisogno di ulteriore enfasi, c’è il fatto che dall’altra parte della rete, in finale, ci sarà un’altra italiana. Davvero troppo per un solo venerdì. Ma evidentemente non bastava la storica impresa di Flavia Pennetta, che aveva concesso appena quattro game a Simona Halep, pur sempre la numero due del mondo. No, mentre tutti quanti stavamo festeggiando l’impresa, una ragazza ormai donna, che aveva imboccato l’ultima curva di una carriera più che dignitosa, ma solo quello, ha deciso che per una volta, una nella vita, che doveva lasciarsi andare. Sempre misurata, sempre saggia, sempre materna: quando Roberta Vinci è sbottata con un “e ora applaudite me” facendo seguire il tutto da un’imprecazione poco elegante, forse abbiamo capito che quel Grande Slam, questa generazione avrebbe continuato a non vederlo.
Non occorre avere tanti anni di esperienza o un’eccellente memoria storica per trovare qualcosa di paragonabile a quello che ha combinato Roberta Vinci contro Serena Williams. Perché se si moltiplicano tutti i componenti di questo pomeriggio newyorkese, quello che viene fuori è talmente improbabile da farci dubitare di avere davvero assistito a qualcosa del genere. Proviamo a riassumere. Serena Williams: 21 Slam, la numero 1 del mondo, in corsa per il Grande Slam, in semifinale agli US Open ed in vantaggio di un set. Dall’altra parte c’è Roberta Vinci: 0 Slam, 0 Premier, non è una testa di serie, non ha battuto teste di serie prima di Serena per arrivare alla sua prima semifinale Slam, non solo non ha mai battuto la rivale ma neanche ha mai trovato modo di toglierle più di sette game nelle quattro partite precedenti partite, ed è in svantaggio di un set. La baseliner per eccellenza, il prodotto più attuale del tennis “hit and run” coniugato con un fisico che ancora a 34 anni continua a incutere timore nelle avversarie contro il fisico da libellula di una tennista che è rimasta all’idea di gioco che si praticava vent’anni fa (e già allora cominciava a mostrare i segni del tempo). Il risultato finale 2-6 6-4 6-4 è illogico come l’ultimo game, nel quale Vinci gioca due demivolée con quella certezza che solo la trance agonistica ti può donare in quel momento e in quello stadio.
Il giorno più bello della storia del tennis italiano offuscherà anche quello che verrà dopo. In finale, una tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci dovrà perdere perché il tennis esige che ci sia un vittorioso e un vinto: e allora la gioia del venerdì si trasformerà nel rimpianto del sabato, in quelle strette al cuore quando pensi a quello che hai fatto per arrivare fino a là ma che non è bastato per alzare il trofeo, in quei “come sarebbe andato se” che lastricano la vita di tutti, anche quella dei tennisti, soprattutto quella dei tennisti. Questo venerdì storico – e una volta tanto si può utilizzare questa parola senza il timore di scadere nella retorica – ha il grande merito di far passare in secondo piano tutti i numeri e tutte le statisiche. Quando l’ultima demivolée è rimbalzata per la seconda volta sull’Arthur Ashe, l’estasi del momento ha annebbiato tutto: due tenniste che battono nell’arco di poche ore la numero uno e la numero due del mondo, la prima finale di un’italiana sul cemento di uno Slam, la prima finale tutta italiana in uno Slam, il Grande Slam di Serena che naufraga quando sembrava che il peggio fosse passato. Le emozioni hanno lavato via tutto e negli occhi di tutti noi è rimasta solo Roberta Vinci con la voce rotta dall’emozione che chiede scusa ai 23.000 statunitensi che volevano celebrare la loro campionessa, la più grande di tutte, l’imbattibile.
I sei minuti di questa intervista vi faranno sentire orgogliosi di essere suoi connazionali
Un’impresa così inspiegabile, così travolgente da far ridiventare quasi normale quanto era successo prima, la vittoria contro la numero due del mondo, la prima finale di uno slam di un’italiana a New York, la prima finale slam al di fuori del Roland Garros, insomma la strepitosa impresa di Flavia Pennetta. Che ha avuto il demerito, ma sì, di far apparire semplice una cosa straordinaria, giocando con una cattiveria inusitata, con una concentrazione tale da far apparire una sparring partner la malacapitata Halep. A differenza di quanto succederà poco dopo, la prima semifinale non è mai stata in discussione, e quando la rumena ha provato a riaprire i giochi portandosi sul 3-1 del secondo set, è stata letteralmente travolta, investita dalla furia di una Pennetta che le ha lasciato la miseria di tre punti. Sarebbe bastato: i telegiornali italiani erano soddisfatti, i quotidiani on line avevano rispolverato i caratteri cubitali, tutti si abbracciavano felici e contenti nello Stivale. Non sapevano che l’incredibile doveva ancora arrivare.
Le due amiche che sedici anni fa vincevano a Parigi il titolo di doppio junior, si ritrovano in una finale che nessuno avrebbe mai pronosticato. Non quattordici giorni fa, ma nemmeno quattordici ore fa. Nel 2013, sempre a New York, la trentunenne Pennetta e la trentenne Vinci si affrontarono in un quarto di finale con in palio la prima semifinale Slam della loro carriera. Se la prese Flavia, che con New York aveva un conto in sospeso. La sconfitta severa ma onorevole con Victoria Azarenka sembrava una più che degna conclusione di una carriera che proprio prima dei titoli di coda aveva trovata la propria legittimazione. La carriera di Roberta, invece, dopo quel quarto di finale si era avviata verso una navigazione a vista, illuminata dai risultati ottenuti in doppio con Sara Errani. A New York i destini di queste due amiche che hanno spesso preferito incontrarsi da avversarie piuttosto che da compagne di doppio, si incroceranno di nuovo. Passa il tempo e la posta si alza. E anche se tra due anni Flavia e Roberta non potranno giocarsi qualcosa di più prestigioso del titolo degli US Open, magari saranno ancora lì, a riavvolgere il nastro della loro carriera in qualche altro modo. E chissà come si lustreranno gli occhi i più giovani – ma anche i meno giovani – tra noi.
Correzione del 12 settembre, ore 17:40: una versione precedente di questo articolo riportava che Serena Williams ha vinto 22 Slam. Ne ha vinti invece 21.