Abbiamo problemi con la gente.
Considerato che le tre signore del Grande Slam sono anche le uniche che avevano vinto i primi tre Slam stagionali, forse non è vero che la pressione sia in grado di attanagliare le giocatrici così tanto. Maureen Connolly nel 1953, Margaret Court nel 1970 e Steffi Graf nel 1988 vinsero l’ultimo Slam che mancava alla collezione con relativa agilità: Connolly non perse nemmeno un set a New York (complessivamente, nei quattro Slam giocati in quell’anno, perse un solo set), Court arrivò in finale perdendo diciassette game (ma lasciando un set alla sua avversaria in finale, Rosie Casals), Graf la imitò diciotto anni più tardi perdendo tredici game in cinque match (saltando la semifinale con Chris Evert, che si ritirò a causa di un virus intestinale) e lasciò un set in finale a Gabriela Sabatini. E se aggiungiamo l’assenza di avversarie davvero pericolose, Serena Williams dovrebbe sentirsi confortata. Tanto per rendere ulteriormente semplice il compito, Maria Sharapova ha anche deciso di dedicarsi alle caramelle per i prossimi mesi, anche se è difficile considerare una gran rivale qualcuno che non ti batte da 11 anni (e che ha perso gli ultimi 17 confronti diretti).
Il problema maggiore di Serena Williams potrebbe essere l’età. Connolly aveva appena 19 anni quando completò il Grande Slam, Court ne aveva 28, Graf 19. E in effetti il cammino di Serena nei tre Major non è filato via liscio come quello delle sue antenate. Agli Australian Open, forse lo Slam dove ha rischiato di meno, ha perso il primo set sia al terzo turno sia al quarto. Al Roland Garros ha sofferto in quasi ogni turno per colpa dell’influenza, rischiando l’eliminazione con Victoria Azarenka e Sloane Stephens (Gianni Clerici, il giorno dopo, scriveva su Repubblica: “Serena si trascinava infatti come una povera ex, una di quelle passate tenniste che non provano vergogna nel partecipare ai tornei delle presunte Leggende, che si svolgono sui campi secondari”) e cedendo il secondo set della finale a Lucie Safarova per un cedimento nervoso non troppo dissimile da quello avuto in finale a Wimbledon nel 2012 contro Agnieszka Radwanska. A Wimbledon, infine, prima si è trovata a due punti dalla sconfitta con Heather Watson; e poi, nei quarti, come a Parigi, ha dovuto rimontare Azarenka. Ma in questo 2015 fatto di 48 vittorie su 50 partite giocate, la sconfitta non sembra contemplata: Serena ha vinto ben undici match su dodici in rimonta (solo Kvitova a Madrid è riuscita a completare l’opera) e quando ha vinto il primo set ha fallito in una sola occasione (a Toronto con Bencic). Le due sconfitte di quest’anno sono praticamente irrilevanti. A New York, piuttosto, potrebbero pesare di più le numerose vittorie al terzo set, con l’inevitabile dispendio di tante energie nervose.
C’è da aggiungere che lo slam newyorkese è quello più pesante per Serena, almeno dal punto di vista emotivo. Se è vero che a Flushing Meadows ha vinto il primo dei suoi ventuno Major nel 1999, e altri quattro dal 2008 al 2014, e anche vero che sui campi degli US Open è stata protagonista di un paio di discutibili comportamenti. Dopo non essere mai arrivata in semi dal 2003 al 2007 e aver vinto nel 2008, Serena nel 2009 fu sconfitta da Kim Clijsters in semifinale dopo aver minacciato di morte un giudice di linea; nel 2011 giocò un’inspiegabile finale con Samantha Stosur e la perse (ad un certo punto Eva Asderaki fu costretta a farle perdere il punto perché aveva esultato con il suo classico “c’mon” prima ancora che la palla rimbalzasse, tanto era pulito quel vincente); nel 2012 e nel 2013 giocò due finali usuranti con Victoria Azarenka, entrambe terminate al terzo set. E poi è lo Slam di casa e gli statunitensi non aspettano altro che fare i titoloni sul loro primo Grande Slam nell’Era Open, specie dato il periodo pessimo in cui versa il tennis maschile da ormai un lustro. “Per ora non ci penso”, ha banalmente detto ieri. “Di che cosa dovrei aver paura, di perdere al primo turno? Non morirò di certo”.
Quando vinse il primo titolo agli US Open nel 1999, Serena Williams era una giocatrice molto diversa da quella di oggi. Il mondo del tennis aveva conosciuto da poco le due sorelle e pochi potevano ipotizzare quale sarebbe stato l’impatto di Venus e Serena. Nemmeno Martina Hingis, finalista in quel torneo, probabilmente se l’immaginava, tant’è che durante la premiazione lanciò il guanto della sfida e disse che si aspettava di prendersi la rivincita perché avrebbero avuto “tanti altri anni per affrontarsi”. In realtà, tre anni dopo smetterà di giocare senza più vincere uno Slam (pur battendo Serena in tre dei successivi sei incontri).
Sedici anni fa.
Serena ha proposto un tennis fino ad allora sconosciuto. Il miglioramento della prestazione fisica riguardava non tanto la capacità di spostarsi nel campo quanto la produzione di forza, pesantezza e velocità dei colpi. Il tennis femminile prima del suo arrivo era molto incentrato sulle geometrie tattiche, sulla precisione di gioco e sulla corsa; si scambiava molto anche sulle superfici più veloci. Serena è stata la prima a proporre scambi brevissimi al limite dell’1-2, avvicinando il tennis femminile a quello maschile. La velocità della battuta è aumentata fino a superare anche i 200 chilometri orari. Serena, inoltre, riusciva a mantenere la velocità del servizio tirando in qualsiasi angolo del campo. Questo le ha permesso non solo un gran numero di ace, ma di avere sempre in mano lo scambio. La sua forza esplosiva, riscontrabile in ogni muscolo del suo corpo, le ha permesso di avvantaggiarsi in termini di stabilità del tronco nella fase di caricamento del servizio (foot back), permettendole di avere una spinta verticale maggiore e di alzare, quindi, il punto d’impatto. Con questo gesto tecnico è in grado di arrivare all’impatto con la palla con una velocità spaventosa della testa della racchetta. Inoltre, durante i match, la sua muscolarità le permette di evitare il calo fisico, soprattutto nei gesti con partenza da fermo. Nei colpi di inizio gioco, infatti, è soprattutto con il diritto che Serena riesce a fare la differenza in campo. Ci è riuscita perché Serena è stata la prima tennista capace di avvicinarsi alla tecnica d’esecuzione maschile. Rispetto alle altre tenniste, Serena è riuscita ad uniformare la preparazione del diritto, in termini di ampiezza, a quella maschile. Prima di lei la maggioranza delle tenniste adoperava una preparazione molto ampia per aumentare lo spazio fra la testa della racchetta e la palla, con lo scopo di far accelerare l’attrezzo e di produrre una maggiore forza-velocità della racchetta. Questo però comportava enormi problemi di fuori-timing sull’impatto avanzato, avendo una preparazione più ampia del normale; Serena, con la sua massa muscolare, è riuscita ad accorciare la preparazione e impattare sempre davanti al corpo, mantenendo altissima la precisione in tutte le zone del campo.
Serena, agli US Open 1999, aveva appena diciotto anni, eppure aveva già vinto il suo primo Slam, a differenza della sorella maggiore. Il suo modo di giocare era meno ordinato e più esplosivo di quanto lo sia adesso ma era un tennis terribilmente efficace e, soprattutto, nuovo. C’era stato il formidabile dritto di Steffi Graf, il tennis solido e potente di Monica Seles e poi il genio tattico di Martina Hingis. Ma con le sorelle Williams, il tennis cambiava radicalmente la propria faccia. Chi non fu capace di adeguarsi a questo muscoloso standard, venne tagliato fuori.
L’impatto delle Williams non si è limitato all’aspetto meramente sportivo: in uno sport giocato e dominato da atleti bianchi e dove i giocatori neri sono stati principalmente delle eccezioni, Richard Williams, centro propulsore di questo terremoto, è diventato una specie di rivoluzionario. Le sue ragazze erano nere, testimoni di Geova e provenienti da un ambiente periferico, lumpen verrebbe da dire. Venus e Serena rappresentevano qualcosa che andava persino oltre il retorico mantra degli USA come terra di grande possibilità. Non sono solo arrivate in cima alla scala gerarchica, hanno proprio stravolto le gerarchie. Non a caso il rapporto con il pubblico statunitense non è mai stato idilliaco: al di là del celeberrimo episodio di Indian Wells, anche a New York Serena ha avuto i suoi problemi. Nel 2004, di fronte ad una Jennifer Capriati sostenuta dall’Arthur Ashe, giocò un match pieno di tensioni, in cui i giudici di linea (e l’arbitro di sedia Mariana Alves) commisero almeno tre errori clamorosi che costrinsero l’USTA a fare le sue scuse a Williams, sospendendo Alves. Ma dopo aver giocato la finale del 2011 e rischiato di replicare l’episodio di due anni prima, Serena pare ora essersi riappacificata con il torneo. Ed è fondamentale, perché solo Serena può battere sé stessa.
A inizio torneo tutti parlavano della minigonna in jeans di Serena.
Il cammino di Serena a New York dipenderà certo da lei ma non è il più semplice che poteva capitarle. Innanzitutto al terzo turno potrebbe esserci Sloane Stephens, che l’ha messa in seria difficoltà a Parigi e ha tanta voglia di rubare i titoli alla tennista a cui si è sempre ispirata. Sloane sembrava potesse essere l’erede di Serena ma, complice una sconfitta di Melbourne che Serena trovò irrispettosa, le due non si sono mai piaciute. Agli ottavi potrebbe esserci Madison Keys, che è talmente imprevedibile nel match secco che potrebbe anche approfittare della stanchezza mentale di Serena. E se sembra davvero clamoroso che possa essere una statunitense ad interrompere a New York la corsa verso il Grande Slam di una connazionale, ecco che ai quarti potrebbe esserci Bencic, che ha già dimostrato di non temere Serena: nel match di Toronto, proprio quando sembrava che la svizzera dovesse pagare l’enorme gap di esperienza, ha giocato dei punti da veterana e vinto un match che sembrava dovesse finire come ogni altra partita giocata da Williams nel 2015. Anche Bencic, come e forse di più delle due statunitensi, dispone del giusto livello di ambizione per tentare il colpo grosso. Per fortuna (forse) è saltata Maria Sharapova, ma che storia sarebbe stata una sua vittoria in semifinale dopo dieci anni di batoste?
C’è poi la finale e non c’è dubbio che per Serena non sarà una partita semplice. Azarenka, Halep, Kvitova o meglio ancora una sorpresa: chiunque arrivi in finale con la statunitense giocherà da sfavorita e con una pressione infinitamente minore. Così come Sabatini, così come Casals: il principale nemico di Serena non sarà dall’altra parte del campo. “Se le cose non funzionano” dice lei, “ci riproverò l’anno prossimo”. Non ci crede nessuno, tantomeno Mouratoglu, tantomeno lei: le grandi campionesse sono tali perché riescono ad andare oltre sé stesse.
Daniele Giuliani ha collaborato alla stesura del pezzo.