Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in spotting on 24 Agosto 2015 14 min read
Gli ultimi due grandi giocatori statunitensi, Andre Agassi e Andy Roddick, hanno abbandonato il tennis alla stessa maniera. A casa loro, allo US Open, di fronte a una folla che interrompe il battito di mani solamente per asciugarsi le lacrime del viso. In campo, sia Agassi che Roddick si coprono il viso con l’asciugamano bianco, prima di inchinarsi al grande pubblico per l’ultima volta. Roddick è stato l’ultimo yankee al vertice della classifica ATP, e l’ultimo a vincere una prova del Grande Slam, lo US Open, nel suo anno magico, il 2003. Roddick, all’epoca, aveva vent’anni. Da allora gli Stati Uniti non solo non hanno più avuto un campione di tennis ma dal 2005 in poi non hanno avuto neanche il piacere di vedere un proprio giocatore tra i primi cinque.
Eppure nessuna nazione ha vinto più degli Stati Uniti in termini di titoli del Grande Slam nell’era Open: 51, più del doppio della seconda in classifica. Dal 1989 al 2003 Pete Sampras, Jim Courier, Andre Agassi e Michael Chang, hanno vinto 27 titoli dello Slam su 56. Poi, dopo il 2003, solo uno su 48, grazie a Roddick. Anche la Coppa Davis, massima competizione a squadre, manca nella bacheca USA dal 2007, quando Andy Roddick e James Black, assieme ai fratelli Bryan, batterono la Russia di Youhzny e Tursunov. I motivi dietro questa declino sono diversi e riconducibili alla globalizzazione dello sport, agli investimenti e alla evoluzione del gioco e dei materiali.
Uno sport diventato (finalmente) di tutti
Oggi si gioca a tennis in tutti i paesi del mondo. Certo, questo sport non è ancora accessibile a tutti, ma intanto la Lettonia ha avuto un top 20 fino a poco tempo fa (Gulbis), Estrella-Burgos ha fatto vincere un titolo ATP alla Repubblica Dominicana, l’isola di Barbados ha rischiato di arrivare nel World Group di Coppa Davis e il Kazakistan ha battuto l’Italia nella stessa competizione.
Nick Bollettieri, il più grande forgiatore di campioni del tennis moderno, colui che ha probabilmente demolito il concetto di “scuola tennistica” applicato ad una nazione, la pensa così sul tema:
“Nel trentennio che è intercorso dagli anni ’70 ad oggi a tennis giocavano gli Stati Uniti e altre quattro o cinque nazioni. Oggi non è più così”
Il tennis poi, negli USA, non conta molto. Lo dice molto chiaramente anche Steve Johnson, top 100 ATP:
“Il tennis negli Stati Uniti non è lo sport principale”
Una ricerca ESPN del 2013 ha collocato il tennis al settimo posto come popolarità negli USA. Secondo questa ricerca in Europa il tennis sarebbe al secondo posto, subito dietro il calcio. Ovvio che, più gente pratichi questo sport, più c’è speranza che qualche talento esca fuori. Negli USA, i genitori preferiscono investire in altri sport per la crescita dei loro figli.
Grafite, poliestere, kevlar: è il progresso, bellezza
Il giorno che è stato dato il via libera all’uso di tutti i materiali per la costruzione delle racchette il tennis ha iniziato il cambiamento forse più drastico della sua storia. Ma, paradossalmente, sull’evoluzione del tennis moderno (o involuzione, se preferite), hanno inciso molto di più i progressi tecnologici delle corde della racchetta. I nuovi monofilamenti, spesso dalle forme poligonali, esaltano il top spin anche grazie alla loro viscosità, che fa muovere le corde maggiormente durante l’impatto, facilitando quindi lo spin, facendole poi tornare alla posizione di partenza. Ecco perché non vediamo più i giocatori sistemare le corde prima di iniziare il punto.
“La gente parla del fattore fisico dei giocatori, delle racchette sempre più grandi, ma il cambiamento più drammatico degli ultimi anni ha riguardato le corde. L’avvento delle corde in poliestere, le quali permettono di generare un topspin esasperato con molta facilità, ha trasformato giocatori decenti in giocatori fantastici. E giocatori fantastici in leggende. Ricordo quando provai, a mia insaputa, queste corde in allenamento. Era il 2002, e provai un telaio con queste corde fatte montare dal mio coach dell’epoca, Darren Cahill. Non sbagliai una palla per due ore. E da allora non sbagliai una palla per il resto del torneo, gli Internazionali d’Italia. E grazie a Darren e a queste corde miracolose”
Sono parole di Andre Agassi. Le corde hanno contribuito a trasformare il tennis in un gioco dagli scambi interminabili (complice l’omologazione delle superfici), con il topspin prerogativa imprescindibile, alzando drammaticamente il punto di impatto medio della pallina. Questo non aiuta di certo i teenager, che non hanno ancora sviluppato sufficientemente i muscoli della spalla e della schiena, necessari per impattare su piani alti e controbattere topspin spesso spediti al di qua della rete da corde Luxilon, scelta irrinunciabile anche per il giocatore di club. Cosa si può fare? Tornare indietro e rimettere in campo i giocatori con le racchette di legno? Il baseball l’ha fatto.
C’era una volta il rovescio
Quando si parla di crisi USA si tralascia spesso la crisi tecnica di quella che fu la scuola a stelle e strisce. I tennisti giocano oggi un po’ come tutti gli altri puntando tutto su servizio potente e diritto molto arrotato. Con le superfici tutte uguali e i rimbalzi più alti (anche a Wimbledon, dove l’erba non è di certo quella di qualche anno fa), chi ha iniziato a giocare a tennis su campi lenti, magari in terra battuta, è partito con un certo vantaggio. Sulla terra infatti bisogna abituarsi a scambi lunghi e ripetuti, in misura molto maggiore che sui campi veloci, dove si gioca sull’uno-due. E in genere sono quelli con passaporto europeo che crescono sulla terra. Roddick, nella prima parte della sua carriera era un giocatore micidiale con servizio e diritto. Sul lato del rovescio appoggiava appena la palla. Anche Roddick fu costretto ad adeguarsi al cambiamento del tennis generato dall’evoluzione dei materiali. Nella seconda e ultima parte della sua carriera lo si vedeva “lavorare” di più la palla, che così però perse in penetrazione. Questa nuova maniera di giocare a tennis imponeva la resistenza da fondo campo, e quindi anche lui si adattò. Migliorò il rovescio: non gli procurava punti diretti, ma gli consentiva una ulteriore opzione rispetto al backspin. Chi venne dopo di lui non era impostato diversamente dal punto di vista tecnico. John Isner, caso a parte per il fisico, gioca anche lui sull’uno-due; Sam Querrey è un Isner di due taglie più piccole; Ryan Harrison rappresente un’eccezione, e non certo per i risultati: gioca il diritto con rotazioni spagnole o sudamericane e però ha il solito rovescio inconsistente. C’è poi Jack Sock, altro yankee salito alla ribalta quest’anno: solita grande prima di servizio made in USA ma un diritto talmente arrotato da rivaleggiare con Nadal in quanto a spin generato. Anche lui però non brilla dal lato del rovescio (bimane, of course). Querrey e Isner possono essere considerati gli ultimi della scuola statunitense. I vari Steve Johnson, Bradley Klahn, Jack Sock, Donald Young, Denis Kudla e il ventiduenne Ryan Harrison (che ora è tornato a farsi sentire ma che nel maggio dello scorso anno si faceva eliminare nelle qualificazioni del Roland Garros, per dire), navigano comunque tutti in posizioni di classifica non proprio di vertice. In soldoni: tutti si sono omologati a un tennis che, giocato in maniera percentuale, ti colloca fra i migliori cento, forse fra i migliori cinquanta, ma poi non ti consente il salto di qualità nelle prime posizioni. Questo dipende anche dagli allenatori, spesso i primi a essere poveri tecnicamente: da Andre Agassi in poi non c’è stato nessun tennista americano che ha giocato con efficacia il rovescio bimane.
Vent’anni fa la Nike poteva fare uno spot con Pete Sampras e Andre Agassi, numero uno e numero due del mondo e assoluti protagonisti del circuito. Oggi dovrebbero chiamare John Isner e Jack Sock: non proprio la stessa cosa.
Il fallimento di Patrick McEnroe nel programma giovani della USTA
Nel settembre del 2014 Patrick McEnroe ha lasciato la carica di Head Of Player Development della USTA. Fra i motivi dietro questa decisione c’è chi ha tirato fuori la logistica (il nuovo centro sorgerà a Lake Nona, alle porte di Orlando, in Florida) o gli impegni personali (McEnroe è commentatore per la ESPN). La USTA, nei sei anni e mezzo nei quali McEnroe è rimasto alla guida del Player Development, ha vinto sei titoli del Grande Slam junior, tre vittorie al World Junior Tennis (gara under 14) ed una vittoria nella Junior Fed Cup. Detto che la vittoria di una prova del Grande Slam a livello juniores non è certo garanzia di chissà quali successi negli Slam dei grandi, e detto che i media hanno cercato di disinnescare la portata della notizia, più che dei successi si è parlato delle polemiche della gestione McEnroe in merito al programma di sviluppo dei giocatori. Alcuni genitori, come la madre di Taylor Townsend, hanno definito fallimentare la sua gestione, almeno dal punto di vista dei risultati. Altri, come Gayal Black, madre di Tornado Black, si sono lamentati di come manchino i fondi per sostenere i viaggi dei giocatori, mentre non sarebbero mancati i fondi per pagare, lautamente a loro giudizio, Patrick. Di sicuro però non si può dare la colpa totale del declino del tennis USA alla USTA. Oggi, la maggior parte dei dei giocatori di vertice viene da accademie private. Anche noi italiani, per quanto riguarda i top player, ne abbiamo esperienza: Errani, Fognini, Giorgi e Pennetta sono giocatori che si sono affermati grazie a coach stranieri, in terra straniera. Ma questa è un’altra storia.
Promesse fallite, i “can’t miss kid”, e quelle future
Donald Young è stato uno di quei tennisti sui quali i nordamericani ha pensato di rifondarsi. Oggi ha 26 anni, il best ranking ATP è 38. Dopo di lui, gli americani hanno puntato su Ryan Harrison. Harrison si è fatto aiutare da un Andy Roddick sul viale del declino accettandone i consigli, ed entrando nei primi 50 dell’ATP. Ma dal ritiro di Andy agli Us Open 2012, Harrison non ha combinato un granché. Improvvisamente, con Roddick che ha lasciato ad altri (Isner) il pesante fardello dell’essere il numero uno d’America, la pressione su Harrison, che nel 2012 aveva vent’anni, è aumentata. E lui non ha retto, andando in crisi e precipitando fuori dalla top 100 ATP. A questo ha contribuito la rottura con il coach australiano Grent Doyle, e il rapporto con la USTA, che ha coach come Jay Berger (numero 7 ATP nel 1990) e che gli ha proposto un affiancamento di più persone, che per Harrison non andava bene. E lui è scivolato in classifica.
Harrison ha spiegato il suo calo così:
“La mia crisi è stata una combinazione di due fattori: non ero preparato a gestire tutta questa pressione dopo l’addio di Roddick e poi non c’erano altri tennisti dietro di me nel ranking, come Jack Sock oggi, ad esempio. Tra me e gli altri c’era un gap enorme”
Pete Sampras vinse gli US Open a 19 anni, ma si trattava di 25 anni fa. Dal 2000 in poi solo Rafael Nadal è stato capace di vincere un titolo dello Slam da teenager, a Parigi nel 2005.
Per quanto riguarda invece i “nuovi”, si parla tanto di Frances Tiafoe, che al prossimo Us Open avrà una wildcard per il tabellone principale (ha già esordito, perdendo, al Roland Garros), avendo vinto i campionati under 18 statunitensi. Tiafoe, classe 1998 e numero 271 ATP, ha vinto l’Orange Bowl 2013, ed è il campione più giovane di sempre in questo torneo. Originario della Sierra Leone, ha cominciato a giocare a tennis nell’impianto americano di College Park, nel Maryland, seguendo suo padre che era impegnato tutto il giorno nel costruirlo, quell’impianto. Ha debuttato anche lui nel 2014 nel torneo ATP di Washington grazie a una wildcard, perdendo al primo turno da Donskoy. Tiafoe ha un gran fisico e non difetta in nessun fondamentale da fondo campo. Il diritto e il rovescio sono colpi solidi, potenti, specie il rovescio che gioca con poco spin. Anche la prima palla di servizio è un colpo che porta punti diretti o, in subordine, lo mette in condizioni di comandare il gioco da dietro. Al Kalamazoo, cioè i campionati junior statunistensi, Tiafoe ha battuto in cinque set un avversario che conosce molto bene, dato che è suo coetaneo: Stefan Kozlov, attuale numero 359 per l’ATP. Il giovane di origine macedone si è fatto notare quando ha conquistato nel 2014 la finale del torneo Challenger di Sacramento (perdendo contro Sam Querrey), a soli sedici anni. Sebbene la sua programmazione si suddivida tra Challenger e Futures, Kozlov ha già collezionato due sconfitte in altrettanti primi turni nei tornei ATP dove è stato invitato. È allenato dal padre, che ha una sua accademia in Florida e per ora sembra un gradino sotto a Tiafoe, almeno dal punto di vista fisico (è alto 183 cm, contro i 188 di Francis). Kozlov predilige il gioco di attesa da fondocampo: ha una buona prima di servizio e lavora molto la palla sia di diritto che di rovescio, che gioca a due mani. Su di lui si è sbilanciato John McEnroe, che lo considera una speranza, problemi del gioco di gambe a parte: “Mi piace questo ragazzo, ha un talento molto naturale, può farcela”, ha detto a proposito dell’attuale numero uno ITF, uno che è andato vicino a vincere un torneo Challenger a sedici anni, cosa riuscita solo a Nadal e Gasquet. C’è poi Michael Mmoh, anche lui classe 1998 e figlio di un ex tennista nigeriano, Tony Mmoh. Dotato di un fisico muscoloso (1,85 centrimetri per 85 kg), Mmoh è stato spesso paragonato a Gael Monfils per le caratteristiche di esplosività. Ha una prima palla di servizio molto potente, e anche i suoi fondamentali da fondo campo sono colpi che lo portano a impostare lo scambio su distanze brevi. Mmoh ha raggiunto buoni risultati nelle categorie under 14 e ora si allena a Bradenton, da Nick Bollettieri, sotto la supervisione della IMG. Ci sono poi anche Noah Rubin, vincitore di Wimbledon Juniors nel 2014 e Jared Donaldson, già nella top 300 a 17 anni. Donaldson, che compirà 19 anni a settembre, ora è numero 157 ATP.
Cosa si può fare?
Nick Bollettieri, il guru del tennis a stelle e strisce, è stato interpellato dai giornalisti sulla questione della crisi di risultati:
“Vorrei prendere trenta o quaranta giovani, selezionarli fisicamente per altezza e peso, e lavorarci sopra tutti spesati in un centro tecnico”
Ma quante volte abbiamo visto – anche direttamente – ottimi junior non diventare ottimi professionisti? Quel che molti giovani non dicono, ma che sappiamo dai pareri di ex campioni come Courier o Higueras, è che numerosi ragazzi sono affascinati dall’idea di diventare una stella del tennis ma spesso ignorano quanto ci sia da lavorare duramente per arrivare al vertice. Non sono pochi i coach americani che lamentano lo scarso impegno dei propri assistiti durante lunghe sessioni di allenamento.
Tra loro Jim Courier, ex capitano della squadra di Coppa Davis:
“Forse pensiamo che come Stati Uniti ci spettino le alte posizioni di classifica, invece no: dobbiamo guadagnarle come tutte le altre nazioni”
La classe ’96-’98 del tennis potrebbe riportare gli americani in alto. I ricambi servono, e più di tutti forse servirebbe una star che riporti il tennis nei titoli di testa dei notiziari. Gli USA stanno investendo ingenti risorse nel cercare di riprendersi ciò che per trent’anni gli è appartenuto: il posto fra i migliori. Oggi in pochi scommetterebbero su un loro prepotente ritorno al vertice. Il dominio del tennis non è più roba degli Stati Uniti. Il tennis di oggi è sempre di più una No Nation’s Land.