Abbiamo problemi con la gente.
Dicono che le lanterne di pietra del tempio di Gessohoji che custodiscono la famiglia Matsudaira brillino di una strana luce ogni volta che il prestigio della famiglia è in pericolo. La famiglia è venerata da almeno otto secoli da tutti i cittadini di Matsue (e cosa sennò?) aiutati e intimoriti dalla minacciosa sagoma del castello nero, che abituato a difendere chi arrivava dal lago o dalla palude, assomiglia più ad una fortezza che alla casa del clan.
Forse anche per questo gli abitanti si decisero a fondare una città che guardasse lago e palude, proprio di fronte la Corea. Fuori dalle rotte turistiche, la città dell’acqua è sbarcata nella modernità riuscendo a uscire quasi indenne dai continui conflitti di quello spicchio di mondo, anche se la relativa vicinanza ad Hiroshima sembra fatta apposta per ricordare quanto esile possa essere la tranquillità.
Se fate un giro da quelle parti, sarà difficile non restare preda di uno dei tanti luoghi comuni, quello che vuole i giapponesi timidi e gentili. E mai, proprio mai, potrete pensare che quello possa essere il luogo dove possa nascere un dio.
Quando Kei Nishikori torna in Giappone pare che la venerazione per lui sia di poco inferiore a quella per l’imperatore. Impossibilitato ad andare a fare uno shopping, manco fosse Totti a Roma, per sua fortuna il mestiere lo porta a girare il mondo per almeno tre quarti dell’anno. Ma da Matsue Kei porta con sé quella curiosa aria tra il placido e il minaccioso che però sembra abbandonarlo sul più bello.
Giocatore di straordinaria rapidità, dotato di un rovescio che nei giorni belli non sbaglia mai, forse epigono di Davydenko per la capacità di anticipare così tanto i colpi da dare ogni tanto l’impressione di colpire quasi di mezzo volo, Kei è da tempo il miglior giocatore di tennis del Giappone e dell’intera Asia.
Un paio d’anni fa sembrava potesse anche diventare qualcosa di più, perché l’allievo di Chang spesso diventava incontenibile. Dopo aver vinto il gaudente torneo di Barcellona – dove Kei alternava lunghe sedute con le bellezze locali a severe lezioni inflitte sul campo ai malcapitati di turno – solo un infortunio evitò che sulla terra di Madrid Nishikori infliggesse una durissima lezione ad un Nadal che non era ancora quello di questi tempi.
E qualche mese dopo, un Djokovic fresco vincitore del suo secondo Wimbledon venne ridotto all’impotenza da quello che, col senno del poi, fu forse il miglior Nishikori di sempre. Ma un occhio attento avrebbe forse dovuto notare che la fragilità di Kei, già diventato il dio del Giappone, non si limitava alla sua struttura fisica.
Nishi curiosamente si inceppava nei match point, prolungando partite finite, ma soprattutto, e misteriosamente, in alcune partite finiva per perdere completamente la misura del dritto. Quando a Bercy Nishikori ritrovò Djokovic il serbo si ricordò di quella partita e cominciò ad insistere sul dritto. Due settimane dopo alle Finals ancora Djokovic, dopo essere stato dominato per mezzora, si accorse dell’altro problema di Nishikori: la fiducia. Salvate un paio di palle break all’inizio del terzo set Nishikori sembrò avvilirsi a tal punto da cedere il set a zero. Non solo, ma da allora in poi il serbo diventerà per lui intrattabile.
Negli incontri successivi Kei riuscirà a vincere un solo set – a Roma – e poi perdere in modo imbarazzante match di un certo rilievo. E per mettere in mostra un altro problema, quello tattico. Il giapponese, perso in modo furioso il quarto finale di Melbourne, a Miami pensò bene di prodursi in bizzarri S&V sulla seconda o dropshot per cui non pare portatissimo. I risultati sono che il giapponese si è sì stabilizzato tra i top5 – hai detto niente – ma che è sembrato allontanarsi sempre di più dalla vittoria di uno Slam.
La caratteristica di questa seconda parte – post 14 – di carriera sembra quella di un dio al quale serve una mano, come quella che gli ha dato Murray a New York quest’anno. Ma quando torna a dipendere da lui, nonostante una chiara supremazia fisica e tecnica, Kei viene di nuovo assalito dai turbamenti, perde il dritto e con esso la partita.
Quei segnali del 2014 sono diventati adesso visibili: finali perse da favorito, occasioni sprecate per via di scelte tattiche scellerate – come quella di giocare sul rovescio di Gasquet a Parigi – dritto che veramente dovrebbe proprio non giocare mai quando la situazione di punteggio si fa complicato. E dietro, l’ombra di Djokovic che l’ha battuto cinque volte quest’anno senza mai preoccuparsi troppo perché tanto, al momento giusto, Kei la partita gliel’avrebbe regalata, come a Roma, quando sul 3 a 1 avanti nel tiebreak decisivo tirò ovunque ma non in campo sia i dritti che i rovesci.
Alla fine di questo 2016, che è stato atipico per mille motivi, Kei si ritrova ancora con una buona possibilità davanti. Il Djokovic con cui giocare la semifinale sembra avere la testa altrove e chissà se si ricorderà che alla fine il gentile giapponese non aspetta altro che dargli spazio. Se sorpresa sarà invece, se Kei proprio in chiusura di un anno che più per demeriti altrui potrebbe portarlo addirittura al terzo posto del ranking ATP, si ricorderà che un dio in fondo non ha confini allora chissà, forse potremmo avere una finale inattesa. E se succederà, le lanterne del tempio di Gessohoji brilleranno come mai prima: il regno dei Matsudaria sarà davvero in pericolo.